Puntata #4

Lo spazio dei curiosi di futuro

Una startup russa vuole usare una costellazione di piccoli satelliti per fare display di banner pubblicitari nello spazio. Intanto a terra si riescono ad hackerare frigoriferi industriali. Facciamo il punto sul riconoscimento facciale. Affrontiamo un tema che oscilla fra l’intimo ed il tecnologico: alcuni operatori stanno tentando di creare dei nostri cloni che ci sopravvivano in un ipotetico “al di la digitale”. Ed infine bolla o non bolla? Siamo in una bolla delle startup? Scoppierà nel 2019? E più che altro, come possiamo attrezzarci in anticipo se gli scenari diventassero foschi?



PUBBLICITA’ NELLO SPAZIO

La startup sovietica Start Rocket ha progettato una soluzione per realizzare degli spazi pubblicitari nello spazio visibili dalla terra. Gli astronomi non sono contenti di questa idea di mettere banner nello spazio che vengono considerati alla stregua di inquinamento luminoso.

Ma andiamo con ordine.

Mentre la maggior parte delle persone guarda il cielo notturno e si meraviglia di quello che vede, medita sul senso della vita o cerca di capire come le nostre origini si intrecciano con tutto ciò che vediamo, altri no: guardano il cielo notturno e non pensano a nulla di queste cose, anzi lo vedono come un grande cartellone vuoto da riempire e grazie al quale fare profitti.

La compagnia russa StartRocket propone di utilizzare Cubesats, piccoli satelliti con costi di produzione e lancio economici, per mettere cartelloni pubblicitari nello spazio. Ad un’altitudine di circa 450 km, i satelliti dispiegherebbero una vela e lavorerebbero in costellazione per creare una sorta di tabellone per le affissioni: il risultato sarebbe un cartellone fatto da pixel con un’area visibile di circa 50 km quadrati, visibile al crepuscolo del mattino e della sera, quando la superficie è in grado di catturare e riflettere la luce del sole.

StartRocket pensa ai loro cartelloni pubblicitari nello spazio come la creazione di un nuovo media, di un nuovo canale di comunicazione. La compagnia li chiama Orbital Displays e ognuno di loro durerebbe circa un anno. Sarebbero facilmente visibili nelle notti limpide, ma non eccessivamente luminose. Avrebbero una luminosità di magnitudine 8, mentre la Luna Piena per esempio è classificata con 13 ed il Sole 27.

Lo scopo dichiarato è la pubblicità. Le aziende globali potrebbero davvero guardare seriamente a sfruttare il sistema, se mai dovesse realizzarsi, anche perché, immaginando la possibile risonanza dell’evento, una volta che un concorrente inizia a usare il sistema, altri probabilmente ne seguirebbero l’esempio. L’idea potrebbe essere troppo allettante per resistere, dal punto di vista del marketing, ma per esperienza direi che, al contrario, quando un’azienda adotta soluzioni troppo vistose o addirittura kitsch, come in questo caso, i concorrenti vi starebbero lontano, ben guardandosi dal replicare il medesimo investimento.

Un altro uso dichiarato è l’intrattenimento. Il sito web StartRocket dice: “INTRATTENIMENTO: Visualizzazione di messaggi o immagini complementari dall’orbita durante eventi globali per scopi di intrattenimento”. Insomma, pare che vogliano puntare ad Olimpiadi, Mondiali di Calcio o eventi globali di grande risonanza. L’idea non è nuova visto che qualcosa di simile, ma a quote più basse era già stato pensato, anche se non realizzato, per promuovere le Olimpiadi di Atlanta del 1996.

I vantaggi sarebbero molteplici: la comunicazione sarebbe visibile a enormi fasce di persone per un considerevole lasso di tempo, sarebbe evidente a chiunque guardasse verso l’alto per qualsiasi motivo, e nonostante i costi di avventurarsi nello spazio, le dimensioni e la visibilità dell’annuncio potrebbe rendere l’iniziativa più economica, rispetto ad alcuni formati più tradizionali. Se gli inserzionisti sono disposti a pagare $ 1,7 milioni per un minuto di tempo durante il Super Bowl, è spaventoso immaginare quanto potrebbero essere disposti a pagare per far vedere il loro annuncio a metà della popolazione del pianeta per un paio di settimane.

Il terzo potenziale utilizzo per questi cartelloni pubblicitari nello spazio è come sistema di allarme in caso di emergenze. In caso di catastrofe, i governi potrebbero usare gli schermi orbitali per comunicare con i cittadini e fare notifiche urgenti per la popolazione. L’idea è apprezzabile, ma in realtà sappiamo che le emergenze e le urgenze mal si conciliano con i tempi di sviluppo ed esecuzione di un progetto aerospaziale che normalmente richiedono molti mesi.

La risposta alla proposta è stata quasi universalmente negativa. Gli astronomi sono contrari, perché il crescente numero di oggetti nel cielo notturno rende più difficile l’osservazione e lo studio dell’universo. Qualcuno ha anche affermato perentoriamente “Cartelloni nello spazio? Cartelloni contro l’umanità!” La The Dark Sky Association, che sostiene proprio l’idea che il cielo non debba essere inquinato dall’illuminazione si è prontamente attivata per bloggare più in profondità le motivazioni secondo le quali l’uso pubblicitario del nostro cielo è da evitare. Altri utenti di blog e siti di news hanno scritto di essere contrari ai cartelloni pubblicitari nello spazio a causa di quanto sembrerebbe innaturale. È necessario sfruttare tutti gli spazi naturali per promuovere più prodotti? Non si può lasciare un po ‘di natura per divertirsi così com’è? Non possiamo essere lasciati soli a meditare sul cielo notturno, senza essere sottoposti alla pubblicità? Al di la del romanticismo, sono chiari i richiami a lasciare intatto uno degli ultimi ambienti non ancora massicciamente colonizzato dall’uomo o almeno usarlo per scopi più utili. A onor del vero esiste il cosiddetto “Trattato sullo spazio extra-atmosferico” del 1967, secondo il quale mentre i paesi non possono rivendicare la proprietà dello spazio o di suoi pezzi come lune e pianeti, sono però liberi di farne uso purché non causino danni o, realisticamente, a patto che puliscano. Quindi, in teoria, se qualcuno vuole andare avanti con la pubblicità spaziale o lunare, sappiate che nulla lo vieta.

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FRIGORIFERI HACKERATI E NUOVE LEGGI IN CALIFORNIA

Migliaia di frigoriferi industriali possono essere scongelati a distanza, grazie alla debolezza delle password predefinite dal produttore

La sicurezza dei dispositivi connessi a Internet è un problema che deve essere preso più seriamente. Lo dimostra il fatto che sono stati identificati migliaia di frigoriferi industriali a cui chiunque può accedere da qualsiasi luogo utilizzando la password predefinita del produttore. Molte di queste unità vulnerabili si trovano nei frigoriferi industriali di ristoranti, ospedali, supermercati e negozi di alimentari dal Regno Unito, in Irlanda e anche in Svezia, Germania e Cina. I ricercatori hanno anche trovato una società farmaceutica in Malesia e un impianto di raffreddamento in Germania.

La globalizzazione per definizione rende l’impatto di questi problemi immediatamente visibile su scala planetaria.

Sarebbero infatti più di 7000 i sistemi di refrigerazione sono vulnerabili a questo tipo di “attacco”, anche se non è un vero e proprio attacco informatico. Il produttore di questi dispositivi industriali, chiamato Resource Data Management, ha reso i suoi dispositivi accessibili da Internet per scopi di amministrazione e manutenzione remota, che è ovviamente una caratteristica ottima.

Dove è quindi il problema? Durante l’installazione di questi dispositivi, il nome utente e la password predefiniti non sono stati modificati rendendo i sistemi accessibili a chiunque sia in grado di leggere i valori predefiniti nella documentazione disponibile sul sito Web del produttore.

Scongelare una macchina richiede solo “il clic di un pulsante e l’immissione di un nome utente e una password”. Entrambi questi valori sono quasi universali in tutti i dispositivi dell’azienda. Naturalmente, dal momento in cui accedi, hai il pieno controllo del sistema e puoi scongelare, impostare i timer, modificare i settaggi e così via …

Quindi se un attacco hacker è possibile, lo è perché c’è l’omissione da parte dell’acquirente di cambiare tale password.

A parziale mitigazione della possibilità che questi eventi si verifichino è intervenuta da buon pioniera la California che a partire dal prossimo anno il 2020, vieterà i dispositivi connessi a Internet prodotti o venduti nello stato se contengono una password debole o predefinita che non è univoca per ciascun dispositivo.

Ogni nuovo gadget costruito nello stato dai semplici router a tutti quelli relativi alla smart home dovrà essere realizzato con caratteristiche di sicurezza “ragionevoli”. La legge richiede specificamente che ciascun dispositivo sia dotato di una password pre-programmata “unica per ciascun dispositivo”. Inoltre, ogni nuovo dispositivo dovrà avere una banale ma fondamentale funzionalità di sicurezza: cioè richiedere all’utente di generare una nuova password prima che venga concesso l’accesso al dispositivo per la prima volta, costringendo gli utenti a modificare la password univoca.

Ovviamente questo non risolve il problema di tutti i dispositivi già in circolazione, ma quantomeno è un segnale di attenzione importante di fronte ad un problema la cui dimensione potrà solo crescere se consideriamo i miliardi di sensori attesi per la gestione delle future “smart cities”. E voi avete cambiato la password al frigorifero?

RICONOSCIMENTO FACCIALE

Il riconoscimento facciale è uno dei cosiddetti sistemi di identificazione “biometrici” insieme alle impronte digitali, la scansione della retina o dell’iride ed il riconoscimento vocale. Il riconoscimento facciale esamina le caratteristiche del volto di una persona nel tentativo di distinguere in modo univoco una persona da tutte le altre.

Il riconoscimento facciale avviene in tre fasi: rilevamento, creazione di faceprint e verifica o identificazione. Quando un’immagine viene catturata, il software del computer la analizza per identificare dove sono i volti, ad esempio, in una folla di persone. In un centro commerciale, in uno stadio, ad un concerto ad esempio, le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza vengono inserite in un computer con un software il cui scopo è identificare i volti.

Una volta che il sistema ha identificato potenziali volti in un’immagine, guarda più da vicino a ciascuno di essi. A volte l’immagine deve essere riorientata o ridimensionata. Una faccia molto vicina alla fotocamera potrebbe sembrare inclinata o leggermente tesa; qualcuno più lontano dalla telecamera potrebbe apparire più piccolo o addirittura parzialmente nascosto alla vista.

Quando il software ha raggiunto una dimensione e un orientamento corretti per il viso cerca di creare ciò che viene definito un “faceprint”. Proprio come un record di impronte digitali, un faceprint è un insieme di caratteristiche che, prese insieme, consentono di identificare in modo univoco la faccia di una persona. Gli elementi di una faceprint includono le posizioni relative delle caratteristiche del viso, come gli occhi, le sopracciglia e la forma del naso e gli occhi sono un fattore chiave nella precisione, fattore che dipende anche dalla presenza o assenza di occhiali.

Un faceprint può essere confrontato con una singola foto per verificare l’identità di una persona conosciuta, ad esempio un dipendente che cerca di entrare in un’area sicura. I volti possono anche essere confrontati con i database di molte immagini nella speranza di identificare una persona sconosciuta (che evidentemente non deve essere in un certo luogo), oppure semplicemente incrociare quel volto con uno schedario di reati commessi ed identificare potenziali criminali.

Un fattore chiave che influenza il modo in cui funziona il riconoscimento facciale è l’illuminazione. Un viso illuminato in modo uniforme visto direttamente dal davanti, senza ombre e niente che blocchi la visuale della telecamera, è il migliore. Inoltre, se l’immagine di un viso contrasta bene con il suo sfondo ed è alla giusta distanza dalla fotocamera, il processo di riconoscimento facciale di solito funziona meglio. La luce irregolare, un’angolazione errata e un’espressione strana possono causare il fallimento del riconoscimento facciale.

Un’altra sfida molto importante per il successo del riconoscimento facciale è il grado in cui la persona identificata coopera con – o è addirittura consapevole – il processo. Le persone che sanno di usare il riconoscimento facciale, come quello che cerca di entrare in una stanza con restrizioni, sono relativamente facili da lavorare per il software. Altre persone invece non sanno che i loro volti vengono analizzati e le immagini dei loro volti sono più difficili da analizzare; un volto estratto da una folla deve essere trasformato digitalmente e ingrandito prima che possa generare un faceprint. E ad ogni operazione e complicazione aumenta il rischio di errori.

Quando un sistema di riconoscimento facciale identifica erroneamente una persona, ciò può causare una serie di potenziali problemi, a seconda del tipo di errore. Un sistema che limita l’accesso a un luogo specifico potrebbe ammettere erroneamente una persona non autorizzata oppure potrebbe bloccare l’ingresso di una persona autorizzata fallendo per identificarla correttamente.

Nelle forze dell’ordine, le telecamere di sorveglianza non sono sempre in grado di ottenere ottime immagini del volto di un sospetto. Ciò potrebbe significare identificare una persona innocente come un sospetto – o addirittura non riuscire a riconoscere che un ricercato.

Indipendentemente dall’accuratezza dei drammi televisivi, c’è spazio per errori, anche se la tecnologia sta migliorando. Il National Institute of Standards and Technology ha stimato che i tassi di errore dichiarati sono in calo del 50% ogni due anni e attualmente sono intorno allo 0,8%. Quindi meglio del riconoscimento vocale, che ha tassi di errore superiori al 6 percento, ma peggio della scansione dell’iride e dalla tradizionale ricerca della corrispondenza delle impronte digitali.

Diverse forze di polizia in giro per il mondo hanno in corso test di riconoscimento facciale. Dai relativamente pochi dati resi pubblici, i tassi di arresto sono bassi e ancora di gran lunga superati dal numero di errori e falsi positivi rilevati in operazioni di sorveglianza pubblica in diretta. Ciò crea il rischio che persone innocenti possano essere fermate e cercate, il che può essere un’esperienza abbastanza traumatica. A giugno 2017, durante la finale di UEFA Champions League a Cardiff, la polizia gallese ha utilizzato la tecnologia del riconoscimento facciale basandosi su immagini di bassa qualità fornite dall’organo di governo del calcio, la UEFA, e il sistema ha prodotto oltre 2000 falsi positivi. I falsi positivi hanno di fatto superato le identificazioni riuscite.

E’ chiaro che la tecnologia sta progredendo, ma la speranza è che il legislatore intervenga per tempo per definire i confini del suo utilizzo, perché mi preoccupa l’errore o mis-use da parte dell’uomo piuttosto che l’errore tecnologico in se. Se voglio analizzare i volti per identificare ricercati, per esempio, devo dare in pasto al software l’elenco dei criminali ancora in libertà e non ci piove. Ma se voglio prevenire potenziali reati o evitare che persone “pericolose” entrino in determinate aree devo definire a priori cosa vuol dire “potenzialmente pericoloso” e quindi l’aspetto soggettivo mette a rischio di discriminazioni. Il riconoscimento facciale per esempio è ampiamente usato negli aereoporti per motivi di sicurezza: e se invece la usassimo per identificare persone provenienti da paesi sgraditi, come ha fatto Trump con i cosiddetti “paesi canaglia”, il rischio discriminatorio è dietro l’angolo. Il tema non è da poco, se consideriamo che recentemente la città di San Francisco sta valutando di vietare l’utilizzo del riconoscimento facciale da parte della polizia. E voi quanto credito date a questa tecnologia? 

AL DI LA’ DIGITALE

Infatti, l’enorme quantità di dati che stiamo creando potrebbe presto rendere possibile la realizzazione di avatar digitali che vivono dopo la morte, destinati a confortare i nostri cari o a condividere la nostra esperienza con le generazioni future.

Potrebbe sembrare un vero e proprio declassamento dalla visione promessa dai futuristi più ottimisti, secondo i quali potremo uploadare la nostra coscienza sul cloud e vivere per sempre nelle macchine. Ma potrebbe essere una possibilità realistica in un futuro non troppo lontano – e i primi passi sono già stati fatti.

Dopo che una sua amica è morta in un incidente automobilistico, Eugenia Kuyda, co-fondatrice della startup russa di intelligenza artificiale, Luka, ha addestrato un chatbot neurale, un computer in grado di dialogare (se mi concedete una sintesi un po semplicistica), basato sulla cronologia dei messaggi scambiati tra le due amiche, utili per ricreare la personalità della deceduta. Il giornalista e programmatore dilettante James Vlahos ha adottato un approccio più omnicomprensivo, conducendo ampie interviste con il padre malato terminale in modo da poter creare un clone digitale di lui quando mancherà.

La startup Eternime sta invece offrendo un servizio di creazione di un avatar artificiale usando i post della persona soggetto dell’esercizio sui social media e le interazioni via email così come le informazioni personali di base. Se pensate che sia un’attività bizzarra sappiate che finora il servizio ha solo una beta privata con una manciata di persone sotto analisi, ma ben 40.000 potenziali clienti in lista d’attesa. E’ chiaro che piaccia o no c’è un mercato.

Come dobbiamo considerare tutto questo: confortante o inquietante?

L’intera idea può sembrare stranamente simile all’episodio Be Right Back della nota serie Black Mirror, in cui una donna paga un’azienda per creare una copia digitale del suo defunto marito e alla fine ottiene un robot che è una replica realistica. Chi ha visto la puntata forse ricorderà il tumulto emotivo che la protagonista attraversa e quindi le persone potrebbero chiedersi se l’idea sia sensata.

Non sono in grado di dire se interagire con un’approssimazione di una persona amata deceduta sarebbe un aiuto o un ostacolo nell’elaborare il lutto, ma su due piedi l’idea non mi mette a mio agio di sicuro.

Però se al momento la maggior parte degli esperimenti, perché di questo si tratta, prevede che queste resurrezioni digitali siano un modo per commemorare i propri cari, ci sono anche piani più ambiziosi per utilizzare la tecnologia come un modo per preservare una certa competenza o l’esperienza di qualcuno. Un progetto al MIT, chiamato Augmented Eternity, sta studiando se possiamo usare l’intelligenza artificiale per letteralmente “esplorare le orme digitali di qualcuno” ed estrarre sia le conoscenze sia la personalità di un soggetto.

Il capo del progetto Hossein Rahnama dice che sta già lavorando con un amministratore delegato che vuole lasciare dietro di sé un avatar digitale che i futuri dirigenti potrebbero consultare dopo che se ne sarà andato.

Se così fosse ovviamente non è necessario aspettare che il soggetto sia morto: gli esperti potrebbero creare cloni virtuali di se stessi in grado di dispensare consigli su richiesta a molte più persone. Questi cloni potrebbero presto essere più che semplici chatbot. Hollywood ha già iniziato a spendere milioni di dollari per creare scansioni 3D delle sue stelle più importanti (è più profittevoli ovviamente) in modo che possano continuare a recitare anche dall’oltretomba.

A questo punto mi chiedo cosa potrebbe succedere se potessimo creare una sorta di cervello digitale combinando l’esperienza e la saggezza di tutti i più grandi pensatori del mondo e questo fosse accessibile su richiesta. Avremmo una sorta di oracolo o consigliere digitale degno di fiducia o una semplice bizzaria come certi personaggi da baraccone del circo?

In ogni caso, ci sono ancora ostacoli enormi prima di poter creare rappresentazioni veramente accurate di persone semplicemente mettendo insieme i loro resti digitali. Il primo problema sono i dati. L’impronta digitale della maggior parte delle persone ha iniziato a raggiungere proporzioni significative solo nell’ultimo decennio e copre un periodo relativamente piccolo della loro vita. Potrebbero volerci molti anni prima che ci siano abbastanza dati per creare qualcosa di più che un’imitazione superficiale di qualcuno.

E questo presuppone che i dati che produciamo siano veramente rappresentativi di ciò che siamo. Profili di Instagram accuratamente elaborati o email di lavoro scritte in maniera professionale non credo siano in grado di catturare la realtà multiforme della vita della maggior parte delle persone.

Però se l’idea fosse semplicemente quella di creare una banca dati di conoscenza e competenza di qualcuno, catturare con precisione l’essenza del personaggio potrebbe essere meno significativo, anche se lasciando fuori la personalità di un individuo, si rischierebbe di ridurre l’esercizio davvero ad una banca dati parlante abbastanza anonima. Infine, ultimo problema, questi cloni sarebbero statici. Le persone reali imparano e cambiano continuamente, ma un avatar digitale è un’istantanea del carattere e delle opinioni di qualcuno ad un certo punto. L’incapacità di adattarsi ed evolvere insieme ai cambiamenti del mondo attorno a loro renderebbe probabilmente tali avatar obsoleti in un tempo rapido.

Tuttavia, vista l’evoluzione di questo settore, tutti questi dubbi non fermeranno la gente che ci sta provando e questo solleva una domanda potenzialmente più importante: chi deterrà dei diritti e quali sulla nostra vita nell’aldilà digitale? I soggetti, le loro famiglie o le aziende che detengono i loro dati?

Nella maggior parte dei paesi, la legge è attualmente piuttosto confusa su questo argomento. Aziende come Google e Facebook hanno processi che ti permettono di scegliere chi dovrebbe assumere il controllo dei tuoi account in caso di morte. Ma se hai dimenticato di farlo, il destino dei tuoi resti virtuali si riduce a un groviglio di leggi federali, leggi locali e termini di servizio della compagnia tecnologica, quelli che non legge mai nessuno per intenderci.

Questa mancanza di regolamentazione potrebbe creare incentivi e opportunità per comportamenti senza scrupoli. La voce di una persona cara deceduta potrebbe essere uno strumento altamente persuasivo per truffare le persone deboli e chi più ne ha più ne metta.

Ciò significa che c’è una necessità urgente di regole chiare e non ambigue. I ricercatori della Oxford University hanno recentemente suggerito linee guida etiche che trattano i nostri resti digitali allo stesso modo in cui i musei e gli archeologi sono tenuti a trattare i resti mortali, con dignità e nell’interesse della società.

Resta da vedere se questo tipo di linee guida verrà mai sancito dalla legge, regole che alla fine possono decidere se l’aldilà digitale si rivelerà essere paradiso o inferno.

BOLLA DELLE STARTUP

All’inizio di ogni nuovo anno sentiamo regolarmente diversi esperti profetizzare che la bolla delle start-up esploderà. Già dal 2012 CNN, Time, The Atlantic, The Wall Street Journal e molti altri sostenevano che l’acquisto di Intstagram da parte di Fecebook per un miliardo di dollari fosse un segno che la bolla stava per esplodere. Stimati commentatori hanno affermato che siamo in una bolla ogni anno da allora al fino 2018. Entrare in modalità sopravvivenza in tutti questi anni sarebbe stato un grave errore per la maggior parte delle startup. È difficile prevedere il picco del mercato, oltre il quale inizierà la discesa ma quest’anno la teoria è alimentata da alcuni indizi significativi.

L’industria americana del venture capital ha toccato un nuovo record nel 2018  spendendo 130,9 miliardi di dollari per le start-up con sede negli Stati Uniti, secondo i dati pubblicati da Pitchbook e la National venture capital association. Il massimo storico si era registrato nel 2000 con 100 miliardi di dollari di investimenti di venture capital. E più che altro il fatto che abbiamo assistito ad un anno irripetibile è testimoniato dal fatto che la spesa del venture capital nel 2018 superi di ben il 57% quella del 2017. A crescere è il valore delle transazioni, non il loro numero che è in flessione. Tra i mega-deal ci sono il round da 1,3 miliardi di dollari chiuso da Epic Games e il finanziamento Series F da 871 milioni per Instacart. La parte del leone la fanno gli accordi di late stage, pari al 62,7% del valore totale.

Ma perché l’aver investito tanto ed in singoli deal più grandi può rappresentare un rischio per la bolla? Perché se i fondi di venture spendono così tanto all’inizio per sostenere le start-up, ottenere un ritorno sull’investimento diventa sempre più difficile. Il business su cui i venture capitalist puntano con esborsi così massicci deve poi crescere parecchio per garantire gli stessi profitti che ottenevano una decina di anni fa.

L’eccesso di capitale gonfia le valutazioni ed il valore dei round di finanziamento e quindi se qualche operatore più cauto teme una correzione nel 2019, soprattutto se il contesto politico e economico sarà meno favorevole, l’approccio non sembra poi così insensato.

Ma la bolla vera o presunta che sia dipende più che altro da cosa succede al momento del realizzo degli investimenti da parte dei fondi.  La forza del mercato del venture capital infatti negli ultimi anni ha anche portato a un sostenuto mercato dell’exit, che ne 2018 registra un valore totale di 122 miliardi di dollari. Le Ipo hanno restituito oltre il 50% del valore delle exit per il secondo anno consecutivo, tra le quali quella di Moderna Therapeutics da 604 milioni di dollari, la più grande quotazione per una società del biotech finora. Senza contare tutte le exit private fuori Borsa, come l’acquisizione di Github da parte di Microsoft per 7,5 miliardi di dollari o l’acquisizione di Duo Security da parte di Cisco per 2,35 miliardi.

Tuttavia, la volatilità delle Borse degli ultimi mesi, l’incertezza legata alla guerra dei dazi tra Cina ed USA, persino lo shutdown del Governo federale americano a Gennaio, che ha causato il rinvio di alcune quotazioni previste ad inizio anno, sono tutti fenomeni che possono ridurre l’attività sui listini.

In ogni caso se andiamo a guardare i fondamentali del settore ove maggiormente investe il venture capital, cioè il software comunque ci si aspettano tassi di crescita ancora sostenuti. Per esempio, il Software as a Service (SaaS) segnerà un tasso di crescita medio del 19,6% tra il 2016 e il 2021, un ritmo di incremento superiore a quello del Pil Usa, che si attesta su una media del +2,3%.

Cosa deve quindi fare una start-up per prepararsi ad un eventuale periodo di difficoltà legato al crollo dei mercati? Non c’è ovviamente una ricetta univoca, ma ci viene in aiuto un bel post di Techcrunch che suggerisce alcuni spunti interessanti che condivido con voi.

Il primo punto chiave è semplice: fare un piano su come raggiungere l’equilibrio, la sostenibilità. Molte start-up pensano che il profitto è qualcosa di cui si possono occupare “più tardi”. Tenete a mente, che se l’economia va male, raggiungere il break-even è più difficile. Mostrare un piano con un chiaro percorso di redditività dissiperà le preoccupazioni degli investitori sul fatto che avrai bisogno del loro capitale indefinitamente, perché quando inizia una crisi i fondi non investono più ed anche immaginare un down round potrebbe essere fin troppo ottimista.

Molto simile il consiglio di immaginare scenari con il 20%, il 50% o l’80% in meno di ricavi: quali decisioni dovrebbero essere prese per sopravvivere?

Ovviamente le conclusioni alle quali si arriva più facilmente sono quelle legate ai costi ed al numero delle persone da tenere sotto controllo. Prima di tutto va evitata la mentalità della “crescita a tutti i costi”, a causa della quale prima si spende e poi si spera di crescere. Tutti gli investimenti vanno rimessi in discussione.

Anche la velocità delle assunzioni può essere un poco rallentata. WhatsApp ha supportato centinaia di milioni di utenti giornalieri con meno di 50 persone. Instagram all’inizio ha conquistato il web con una squadra di una dozzina di persone. Probabilmente si possono fare cose egregie con meno persone di quanto si pensi, a patto di essere in grado di automatizzare alcuni processi.

Le ultime cautele sono di natura finanziaria ovviamente. La settimana in cui il mercato scende del 50% non è la settimana in cui iniziare una conversazione M & A. Però l’imprenditore dovrebbe conoscere i cinque acquirenti più probabili della sua azienda, sapere chi sono i decisori di ciascuna di esse ed aver costruito un rapporto con loro da tempo. Non si tratta di un processo di vendita formale, ma contribuisce a far crescere il desiderio interno di acquistare la sua azienda se si presenta l’opportunità. Potrebbe non essere l’uscita dei sogni, ma è cosa buona avere delle opzioni in caso di necessità.

L’ultima attività preparatoria invece consiste nel capire come funziona il debito che, se aperto quando la liquidità sul mercato è alta, i tassi bassi ed i tempi di rimborso molto lunghi, rappresenta un’opportunità straordinaria, perché indebitarsi non è peccato ed anzi abbassa il WACC, ma di questo tornerò a parlare in altre occasioni. Quindi niente panico, bolla o non bolla, gli strumenti per prepararsi ad un eventuale peggio ci sono tutti.


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