
Scoperto un modo di identificare ed uccidere le cellule tumorali circolanti che causano le metastasi. Grazie ad un laser.
Il primo hotel al mondo con personale esclusivamente robotico, licenzia i robot.
Il famigerato mondo dei beacon tra marketing e privacy.
Pat Brown e Impossible Foods: dagli allevamenti intensivi all’eme.
Passato, presente e futuro dell’intelligenza artificiale in Microsoft.
IL LASER CHE DISTRUGGE IL CANCRO
La medicina continua a mostrare progressi a cadenza mensile, se non addirittura settimanale, nella lotta ai tumori e cresce la sensazione che un tassello dopo l’altro prima o poi la battaglia potrà essere vinta. L’ultima novità arriva da un team di scienziati dell’Università dell’Arkansas Medical Sciences, che hanno ha testato con successo un laser in grado di rintracciare le cellule tumorali e di ucciderle, tutto dall’esterno della pelle.
Si tratta di un laser che distrugge le cellule tumorali che circolano nel sangue. Il primo studio di questo nuovo trattamento nell’uomo dimostra che si tratta di un metodo non invasivo ed assolutamente innocuo. Le cellule tumorali che diffondono il cancro attraverso la circolazione sanguigna, per fortuna da oggi hanno un nuovo nemico: un raggio laser appunto, che opera dall’esterno della pelle, e che trova e uccide sul posto le cellule metastatiche.
Note come CTC, o cellule tumorali circolanti, si tratta di cellule che si separano da un tumore e si muovono attraverso il sangue o il sistema linfatico per creare tumori secondari aggregandosi. La correlazione tra CTC e stato di malattia è stata studiata nel melanoma, nel tumore del seno, nella prostata, nell’urologia e in tanti altri tipi di tumori, con prove crescenti che i CTC quando tendono ad aggregarsi sono di fatto precursori delle metastasi, che sono responsabili del 90% delle morti di pazienti con il cancro.
In uno studio pubblicato pochi giorni fa su Science Translational Medicine, i ricercatori hanno rivelato che il loro sistema ha rilevato con precisione queste cellule in 27 su 28 persone con cancro, con una sensibilità che è circa 1.000 volte migliore della tecnologia attuale. Questo è un risultato di per sé, ma il team di ricerca è stato anche in grado di uccidere un’alta percentuale di cellule che diffondono il cancro, in tempo reale, mentre queste scorrevano attraverso le vene dei partecipanti.
Se sviluppato ulteriormente, lo strumento potrebbe dare ai medici un modo innocuo, non invasivo e completo per cacciare e distruggere tali cellule prima che queste cellule possano formare nuovi tumori nel corpo. “Questa tecnologia ha il potenziale per inibire significativamente la progressione delle metastasi”, dice Vladimir Zharov, direttore del centro di nanomedicina dell’Università dell’Arkansas per le scienze mediche, che ha condotto la ricerca.
Uccidere queste cellule tumorali circolanti, o CTC appunto, direttamente nel sangue prima che abbiano la possibilità di stabilirsi potrebbe aiutare a prevenire le metastasi e salvare vite umane. La semplice possibilità di contare i CTC potrebbe aiutare i medici a diagnosticare e trattare con maggiore precisione il cancro metastatico – qualcosa che nessun dispositivo è stato in grado di fare in modo efficiente.
Zharov e il suo team hanno testato il loro sistema in persone con melanoma o cancro della pelle. Il laser, irradiato da una vena, invia energia al flusso sanguigno, creando calore. I CTC del melanoma assorbono una quantità maggiore di questa energia rispetto alle cellule normali, facendole riscaldare rapidamente ed espandersi. Questa espansione termica produce onde sonore, una cosa nota come effetto fotoacustico, che possono essere registrate da un piccolo trasduttore ad ultrasuoni posto sulla pelle vicino al laser.
Le registrazioni indicano quando un CTC passa nel flusso sanguigno. Potremmo quasi definirlo un mirino acustico. Infatti, lo stesso laser può essere utilizzato per distruggere i CTC in tempo reale.
E come fa? Ancora una volta grazie ad un principio fisico abbastanza elementare. Il calore del laser provoca la formazione di bolle di vapore sulle cellule tumorali. Le bolle prima si espandono, poi collassano e scoppiano, come tutte le bolle, interagendo con la cellula tumorale e distruggendola meccanicamente. Un po’ come sparare ai cattivi nei videogiochi.
Lo scopo dello studio era quello di testare l’accuratezza del dispositivo nel rilevare i CTC, ma anche solo usando il laser in modalità diagnostica a bassa energia, il trattamento ha ucciso un numero significativo di CTC in sei pazienti. “In un paziente, abbiamo distrutto il 96% delle cellule tumorali” dice Zharov. Lui e i suoi colleghi ovviamente dicono di sperare che il laser sarà ancora più efficace quando, negli studi futuri, si deciderà di aumentare l’energia.
Zharov ha avuto l’idea di questa tecnologia più di un decennio fa, e da allora l’ha testato sugli animali e ne ha dimostrato la sicurezza alla U.S. Food and Drug Administration (FDA), la cui approvazione è stata richiesta prima di procedere con la sperimentazione clinica. Zharov dice che il dispositivo è il primo CTC diagnostico non invasivo ad essere dimostrato negli esseri umani.
Il dispositivo tra l’altro è anche piuttosto veloce: può scansionare un litro di sangue in un’ora – molto più velocemente degli altri dispositivi esistenti. Sono stati proposti almeno un centinaio di altri dispositivi progettati per monitorare i CTC. Questi sistemi prevedono tipicamente il prelievo di sangue da una vena e la sua analisi al di fuori del corpo.
Pensate che solo uno di questi dispositivi di monitoraggio ha ricevuto l’approvazione della FDA: una macchina chiamata CellSearch, delle dimensioni di un forno. Gestisce piccoli campioni di sangue, fornendo solo un’istantanea dei CTC che potrebbero essere presenti nell’intero flusso sanguigno.
Altri hanno invece già condotto sforzi nella distruzione dei CTC, ma con risultati ambigui. Ricercatori dell’Università del Michigan, per esempio, in aprile hanno annunciato di aver fatto progressi su questo fronte. Il loro dispositivo indossato al polso pompa il sangue dal corpo, cattura i CTC, e poi pompa il sangue pulito di nuovo nel corpo. Un metodo quindi invasivo per nulla banale.
Il laser di Zharov sembra quindi essere una soluzione fantastica e migliorativa dell’esistente. Se continuerà sulla strada giusta speriamo di vedere questa tecnologia a disposizione dei pazienti nel più breve tempo possibile.
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IL ROBOT HOTEL GIAPPONESE LICENZIA I ROBOT
Settimana scorsa ho lanciato una serie sul canale Youtube The Future Of, dove ogni puntata è dedicata ad un anno del futuro, dal 2024 al 2050 e dove provo a raccontare una serie di eventi che probabilmente accadranno o si materializzeranno in quegli anni. Proprio parlando del 2024 ho detto che diventeranno comuni gli hotel gestiti interamente da robot, dove dal nostro arrivo al check-out potremmo non incontrare e non interagire con personale umano dell’albergo.
Nel mondo sono già in corso diversi esperimenti in tal senso, ed i loro successi o insuccessi rappresentano le prime importanti lezioni di un futuro abbastanza prossimo. Il caso probabilmente più famoso riguarda il giapponese Henn-na “Strange” Hotel, del quale potreste aver visto le bizzarre foto di due robot dinosauri concierge alla reception o dei robotini porta bagagli che scortano gli ospiti dall’ingresso alle loro camere.
Un lancio avvenuto in pompa magna, un battage di comunicazione da parte di tutte le riviste di tecnologia mondiali, un crescente numero di robot, quasi 250, a servizio degli ospiti delle 100 stanze dell’hotel ed un fallimento sostanziale, che proprio all’inizio di quest’anno ha portato al “licenziamento” della metà della forza lavoro robotica.
Cosa è successo? Un misto di problematiche che andavano dal semplice mancato funzionamento dei robot, alla incapacità di affrontare situazioni particolari, piuttosto che in generale alla richiesta di intervento da parte dell’uomo, tipicamente un manutentore dei robot, in quantità di gran lunga superiori rispetto alle aspettative.
Uno dei licenziamenti ha riguardato un’assistente a forma di bambola, presente in ogni camera d’albergo chiamata Churi con la quale gli utenti avrebbero dovuto dialogare e ricevere risposte, aiuto e dritte sulle classiche domande da turista. Ne è venuto fuori che mentre Siri, Google Assistant e Alexa erano in grado di rispondere alle domande, per esempio, sugli orari di apertura e chiusura delle aziende locali, Churi non ci riusciva. O addirittura si attivava quando un ospite russava in maniera un po’ più rumorosa del normale, per dire semplicemente che non aveva capito e se l’ospite poteva ripetere la domanda.
Due portapacchi robotizzati sono riusciti a raggiungere solo 24 delle oltre 100 camere dell’hotel e hanno fallito sotto la pioggia o la neve. Inoltre, spesso si bloccavano nel tentativo di passare l’uno accanto all’altro.
Anche i due robot velociraptor posizionati al check-in sono stati smantellati perché gli umani dovevano essenzialmente fare il loro lavoro per loro e fotocopiare manualmente i passaporti degli ospiti. Analogamente, il principale robot di portineria dell’hotel, non riusciva a rispondere alle domande sugli orari dei voli e sulle attrazioni turistiche vicine. E quindi è stato sostituito da un umano.
Insomma un fallimento su tutta la linea, che deve far ripensare alla possibilità che un domani gli hotel siano davvero completamente robotizzati.
Eppure alcune evidenze forti restano. Il costo del personale umano infatti è in crescita, mentre quello dei robot in forte calo. La sostituzione per motivi di costo è plausibile, esattamente come accade in altri settori, solo che qui non siamo nel mondo industriale, ma nel B2C. Nessuno si turba nel vedere un braccio robotico che solleva una pesante portiera e la assembla ad un veicolo, mentre è un po’ più difficile gestire una relazione umana. Tanto più che l’Hen-na Hotel aveva destinato anche robot a intrattenere gli ospiti, come quelli che dovevano ballare nella hall o quelli pensati per preparare i cocktail. E pensare che il Giappone aveva tutte le carte in regola per far si che le persone accettassero un robot, dal momento che secondo le concezioni animiste anche gli oggetti hanno un’anima ed una personalità e quindi un giapponese è per certi aspetti più predisposto ad accettare un dialogo ed un’interazione con una macchina, molto di più di quanto accada a noi occidentali.
Ma se poi il robot non funziona, la frittata è fatta ugualmente. E qui probabilmente è più un tema di robot utilizzati e di progettazione della loro interazione. L’Hotel in questione ha aperto nel 2015, e quindi per definizione è stato progettato prima e lo stesso vale per i robot acquistati ed utilizzati. Non credo serva rimarcare come i robot ed i software siano già cambiati mostruosamente in 5 anni e che un nuovo esperimento oggi porterebbe sicuramente a risultati più soddisfacenti.
Anche nel linguaggio i passi avanti sono stati enormi. Sappiamo cosa possono fare gli assistenti vocali e sappiamo che miglioreranno ancora, specialmente se applicati ad un dominio ristretto. Se il vocabolario di una qualsiasi conversazione può essere molto ricco e variegato, quello di un albergo si limita evidentemente ad un sottoinsieme, e quindi è più semplice farlo funzionare, visto che si parlerà sempre di servizi alberghieri, attrazioni turistiche, viaggi e spostamenti.
Ma il bello è che questo potrà avvenire in ogni lingua. Cosa che aiuta superare le barriere. Se io andassi in un hotel in Giappone, ma anche in Cina o in un Paese Arabo, non mi dispiacerebbe per nulla trovarmi davanti un robot che con ottimo italiano mi chiede i documenti, procede alla registrazione, mi dice a che ora è la colazione e mi indica come arrivare alla mia camera.
La mia aspettativa è che, a partire dagli hotel di fascia bassa e quelli a maggior transito business breve per esempio vicino a stazioni ed aeroporti, il personale robotico si affianchi progressivamente a quello umano e lo sostituisca in alcuni compiti. Se avete pazienza, ci risentiamo nel 2024 su questo tema e vediamo cosa è davvero successo.
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IL FAMIGERATO MONDO DEI BEACON
Nei negozi, la sorveglianza segretamente segue ogni tua mossa. Mentre fai acquisti, i “beacon” ti stanno osservando, utilizzando tecnologia nascosta nel tuo telefono. Sembrerebbe quasi l’inizio di una storiella di fantascienza di serie B, se non fosse il titolo di un articolo serissimo di settimana scorsa apparso sul New York Times.
I beacon sono dei piccoli e intrusivi dispositivi elettronici che possono essere letteralmente nascosti in un negozio, mentre un’applicazione sul vostro telefono che comunica con loro ha informato l’azienda non solo che siete entrati nell’edificio, ma che vi siete fermati per esempio per due minuti davanti ad un determinato prodotto, dimostrando un certo interesse o il dubbio se acquistarlo o meno. Probabilmente la volta successiva che passerete davanti allo scaffale che espone quell’articolo, la tecnologia sarà in grado di inviare sul vostro telefono un coupon con uno sconto da redimere immediatamente ed una notifica che vi avvisa in proposito.
Tutto quanto detto finora è sorprendentemente pauroso se lo analizziamo passo passo.
Prima di tutto i beacon ci sono, ma non li vediamo. La maggior parte delle persone non è consapevole di essere osservata, ma il cosiddetto “beacosystem” rintraccia milioni di persone ogni giorno. I beacon sono collocati in aeroporti, centri commerciali, metropolitane, autobus, taxi, palazzetti dello sport, palestre, hotel, ospedali, festival musicali, cinema, musei, ma anche, e forse ovviamente, sui cartelloni pubblicitari. Ed naturalmente ad oggi nessuna legge impone nemmeno di mettere un cartello che avvisa l’utente di essere tracciato. Insomma se c’è una telecamera è obbligatorio avvisare, se c’è un beacon no.
Anche parlare di eco-sistema beacon sembra assolutamente corretto. Nel 2015, Facebook ha iniziato a spedire gratuitamente i suoi beacon bluetooth alle aziende per il marketing di localizzazione all’interno dell’applicazione Facebook. Nel 2017, Google ha introdotto il Project Beacon e ha iniziato a inviare i dispositivi alle aziende per un utilizzo ottimizzato con i servizi Google Ads. Le catene ed una miriade di terze parti che analizzano i dati di marketing operano su base quotidiana per tracciare i vostri dati.
Potreste obiettare che sul vostro smartphone però non avete alcuna applicazione abilitata ad interfacciarsi con i beacon. Al fine di tracciare l’utente o attivare un’azione come un coupon o un messaggio al telefono, le aziende hanno bisogno di installare un’applicazione sul telefono che riconosca il beacon nel negozio. I rivenditori, come Target e Walmart, citati nell’articolo del New York Times, che utilizzano i beacon bluetooth, tipicamente costruiscono il tracking nelle proprie applicazioni. Quindi se usate l’app di un rivenditore, magari non vi sarà chiarissimo, ma la funzione è probabilmente già embedded nell’app stessa.
Ma i rivenditori vogliono essere sicuri che la maggior parte dei loro clienti possano essere rintracciati, non solo quelli che scaricano le loro applicazioni. Così un’industria nascosta di terze parti di società di location-marketing ha proliferato, in risposta a questa necessità. Queste aziende prendono il loro codice di tracking beacon e lo inseriscono in un toolkit che gli sviluppatori di app di tutti i generi possono utilizzare. I produttori di molte applicazioni popolari, come quelle per notizie o aggiornamenti meteo, inseriscono questi toolkit nelle loro applicazioni ed il gioco è fatto. Pensavate di controllare le previsioni del tempo o leggere semplicemente le ultime notizie ed invece avete detto inconsapevolmente a qualcuno se comprate lo yoghurt. E non pensiate sia un tema da piccoli hacker. Negli Stati Uniti, la società inMarket, per esempio, copre circa un quarto di tutti gli smartphone, e tiene traccia di 50 milioni di persone ogni mese.
Ok fin qui è tutto chiaro, ma non mi dirai davvero che il beacon sa che mi sono fermato proprio davanti ad un certo prodotto specifico. Ed anche qui invece vi sbagliate. La maggior parte dei servizi di localizzazione utilizza le torri cellulari ed il GPS, ma queste tecnologie hanno dei limiti. Le torri cellulari hanno un’ampia copertura, ma una bassa precisione di localizzazione: basandosi su queste tecnologie un inserzionista potrebbe pensare che voi siate in un certo negozio, ma in realtà siete da McDonald’s che è giusto a fianco. Il GPS, al contrario, può essere preciso con un raggio di circa cinque metri, ma comprensibilmente non funziona bene all’interno. I radiofari bluetooth, tuttavia, possono tracciare con precisione la vostra posizione con uno scarto di pochi centimetri. Utilizzano poca energia e funzionano bene all’interno e questo li ha resi popolari tra le aziende che vogliono una localizzazione precisa: forse non sono in grado di dire se avete guardato lo Yomo o il Danone, ma se vi siete fermati al banco yoghurt, rispetto al latte o ai formaggi confezionati questo di sicuro.
E’ evidente che siamo nelle mani di terze parti che ci profilano, ci classificano e ci targettizzano anche se non ne siamo perfettamente consapevoli. E se volessimo renderci liberi da queste tecnologie, le impostazioni sono spesso nascoste nelle app, oppure come nel caso di talune catene neppure visibili. Esistono app che fanno lo scanning dell’ambiente circostante, ma anche qualora dovessero rilevare la presenza di un beacon, cosa fare non è chiarissimo.
Ecco allora che torniamo nel variegato mondo della privacy auspicando una migliore protezione dalle ingerenze dei piccoli e dei grandi, dei supernoti e degli ignoti che apparentemente intanto continuano a banchettare sui nostri dati.
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PAT BROWN, IMPOSSIBLE FOODS
Professione futuro è la rubrica di The Future Of dedicata ad imprenditori, visionari ed innovatori che con le loro startup, istituzioni o più raramente da soli stanno contribuendo a disegnare intriganti scenari futuri. Se avessi prodotto questa sezione del podcast guardando al passato, avrei parlato di Leonardo da Vinci, Nikola Tesla, Alan Turing, Steve Jobs ma ho deciso di fare una scommessa sul futuro e raccontarvi quello che verrà.
Il nostro uomo oggi è Pat Brown, un biochimico di Stanford che durante un periodo sabbatico decise di trovare una soluzione a quella che chiama “la tecnologia più distruttiva della terra” e cioè il fatto che gli animali vengono usati in maniera intensiva ed innaturale per produrre cibo. L’obiettivo di Brown è rimpiazzare completamente questo modello non sostenibile, entro il 2035.
Il pascolo animale e la produzione di mangimi utilizzano circa l’80% dei terreni agricoli a livello mondiale e il bestiame rappresenta oggi il 60% dei mammiferi terrestri. Ovviamente Brown sapeva che aspettarsi che la gente lasciasse la carne ed i latticini dall’oggi al domani non era realistico.
Così ha fondato Impossible Foods e ha progettato un sostituto vegetale degli amati hamburgers che utilizza l’eme, un componente di una molecola contenente ossigeno presente anche nel sangue, per replicare le deliziose caratteristiche della carne bovina. E quando parliamo di replicare, non lo diciamo a caso, il cibo di Impossible Food vuole avere al palato la stessa grassezza, succosità e croccantezza della carne bovina.
Attorno a Impossible Foods sono stati coniati i termini neocarne, gastrotecnonomico, superpolpetta e chi più ne ha più ne metta. La neocarne è prodotta grazie all’eme, complesso chimico che contiene ferro, parte integrante dell’emoglobina, responsabile di portare l’ossigeno attraverso il sistema circolatorio animale e di far funzionare il sistema linfatico vegetale. L’eme è presente anche in molti vegetali ed è proprio da essi che Pat Brown la estrae o la produrrà coltivandola direttamente tramite i lieviti. E la sfrutta per dare al suo pappone vegetale il sapore della carne di manzo.
Presenti un anno fa in appena 40 località americane, che comunque non era un brutto traguardo per iniziare, recensioni entusiastiche hanno spinto il prodotto ammiraglia dell’azienda Impossible Burger a diffondersi in oltre 3.000 store in tutto il mondo. Da un cheeseburger vegano da 30 dollari al Grand Hyatt di Hong Kong a un burger veloce da 1,99 dollari da White Castle.
Numeri che sono destinati a cambiare rapidamente, dal momento che la Società rilascia informazioni pubbliche solo parziali e secondo altre stime, ad oggi l’Impossible Burger è già presente in oltre 9.000 ristoranti solo in America, grazie ad una capillare distribuzione operata da oltre 400 distributori. E successo che sta impattando anche sulle catene che hanno accolto il prodotto, come appunto White Castle, dove le vendite in risposta all’Impossible Whopper di Burger King, sempre fornito da Impossible Foods, sono state talmente di successo da mettere in difficoltà la logistica. Insomma, non stavano dietro alle vendite, incredibile.
Del resto dopo aver servito 12 mila Impossible Burger bilanciati al meglio tra calorie, ferro, colesterolo e sapore al Consumer Electronic Show a Las Vegas, se ancora qualcuno poteva avere dei dubbi, questa intelligente mossa di marketing ha convinto un po’ tutti.
Considerato che a Luglio 2018, la Food and Drug Administration americana ha approvato la sicurezza della “carne” vegana con l’eme, la strada per il successo sembra ormai spianata. Ed anche la quotazione di Beyond Meat, altra Società teoricamente concorrente che vuole sostituire la carne animale con altre soluzioni, in realtà sembra aiutare Impossible Foods, perché mai come in questo potremmo dire, l’appetito degli investitori sembra essere sconfinato. Dopo aver raccolto 750 milioni di dollari in diversi round, sembra che il mercato sia già pronto per un nuovo player. Il cui unico competitor a quanto pare sembrano essere solo le mucche.
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MICROSOFT E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
Microsoft è tra le aziende che hanno investito di più nell’intelligenza artificiale. Possiamo iniziare con Microsoft Research AI, che è un’organizzazione, fondata da Microsoft e focalizzata sulla ricerca e sviluppo proprio dell’intelligenza artificiale. Poiché l’azienda utilizza già l’intelligenza nei suoi processi per esempio con i chatbot Skype, nell’analisi dei dati, nell’interazione con Cortana, ecc., non c’è da stupirsi che Microsoft intenda crescere in questa direzione a supporto dei propri prodotti.
Microsoft ha lanciato i suoi strumenti basati sull’IA attraverso il servizio di cloud computing Azure e sta lavorando all’implementazione dell’IA in Office 365. Nel 2018 ha acquisito cinque società di intelligenza artificiale. L’ultima acquisizione è stata XOXCO: uno studio di progettazione e sviluppo di prodotti software che va ad integrarsi con la suite di prodotti esistenti ed aiutare nello sviluppo di nuove soluzioni. L’obiettivo sembra essere quello di offrire un maggiore valore reale per gli utenti dei prodotti Microsoft.
Per cercare le origini dell’interesse di Microsoft per l’intelligenza artificiale, è necessario andare molto indietro nel tempo prima che Amazon, Facebook e Google fossero sul mercato. Bill Gates ha fondato il braccio di ricerca di Microsoft nel 1991, e l’intelligenza artificiale è stata un’area di indagine fin dall’inizio. Tre anni dopo, in un discorso alla Conferenza Nazionale sull’Intelligenza Artificiale di Seattle, l’allora capo vendite Steve Ballmer ha sottolineato la fiducia di Microsoft nel potenziale dell’IA e ha detto di sperare che il software un giorno sarebbe stato abbastanza intelligente da guidare un veicolo. Sono passati 25 anni e sappiamo di esserci avvicinati moltissimo.
Il Microsoft Research Center oggi occupa oltre 1.000 professionisti, tra Boston, Montreal, Pechino, Bangalore e diversi altri luoghi nel mondo. Garantire che le innovazioni dell’IA di Microsoft vadano a vantaggio dei clienti Microsoft significa però assicurarsi che i team di ricerca e i team di prodotto non siano isolati l’uno dall’altro. Non basta fare ricerca. Bisogna incoraggiare i team a parlare tra loro, cosa che Microsoft fa in modo strutturato. Ogni sei mesi circa, ad esempio, un evento chiamato Roc è dedicato alla cosiddetta cross-fertilization, tra le attività di ricerca sull’AI e lo sviluppo di prodotti Office.
Come conseguenza, quasi tutto ciò che Microsoft sta aggiungendo a Office in questo periodo ha un elemento di intelligenza artificiale e di machine learning. In PowerPoint, ad esempio, l’azienda vuole che l’IA sia “il designer che lavora nel cloud per te”. Se si utilizza un PC dotato di penna come Surface di Microsoft, PowerPoint è in grado di convertire le parole e le forme scansionate a mano libera in blocchi di testo e oggetti. E se il software nota che stai inserendo una sequenza di date, si renderà conto che potrebbe avere senso disegnarle come una linea temporale.
Analogamente se ci spostiamo dal serioso mondo di Office e del business in quello ludico dei giochi, dove Microsoft con Xbox è uno dei principali player del mercato, le logiche non cambiano. Ascoltare il cliente ed utilizzare l’intelligenza artificiale per migliorare l’esperienza.
Gli studi, per esempio, hanno dimostrato che la concorrenza online trae grandi benefici dal fatto che i giocatori vengano abbinati ad altri con abilità approssimativamente comparabili. Xbox Live ha a lungo utilizzato un algoritmo chiamato TrueSkill per garantire che questo accadesse ed i concorrenti non scivolassero nella noia di una partita troppo facile o nella frustrazione di perdere sempre. Allo stesso modo ha lanciato una soluzione tecnologica potenziata dall’IA, chiamata FastStart che sfrutta il machine learning per determinare quali parti di un gioco devono essere scaricate per prime, permettendo ai giocatori di iniziare a giocare più velocemente, prima che l’intero pacchetto venga scaricato e installato.
Ma anche dietro le quinte dei prodotti, Microsoft non scherza. Per esempio, è da citare il progetto Brainwave, con il quale la Società è entrata nella progettazione del proprio hardware per ottimizzare l’intelligenza artificiale. Steve Jobs amava dire che Apple è stata l’unica azienda informatica che ha costruito “l’intero mondo” – non solo software o hardware, ma entrambi, integrati così bene che l’esperienza diventa perfetta. Ecco che Microsoft ed altri stanno sostanzialmente facendo la stessa cosa: magari non si tratta più di smartphone e tablet, bensì di grandi data center a supporto dell’intelligenza artificiale nel cloud, ma la logica è esattamente quella.
Con Azure, Microsoft è in gara con Amazon e Google per fornire intelligenza artificiale ed altre funzioni informatiche avanzate alle aziende di ogni tipo con servizi on-demand. Questo non è un bene solo per le aziende esterne che utilizzano la piattaforma, ci sono anche gruppi all’interno di Microsoft che possono beneficiare di questa intelligenza preconfezionata e dell’apprendimento automatico.
Un esempio calzante è Codie, un chatbot multilingue progettato per fornire informazioni sulla programmazione. Si tratta di un esperimento interno di Microsoft, piuttosto che un prodotto commerciale, che è nato dalla consapevolezza che uno dei principali ostacoli per i potenziali ingegneri del software è semplicemente l’accesso alle informazioni su questioni come i comandi di un linguaggio di programmazione o la sintassi per le query ad un database. Il problema è particolarmente acuto per i non madrelingua inglese: ecco che, allora, un tool che aiuta le persone a dialogare sia nella lingua del codice che nella lingua madre parlata può agevolare lo sviluppo delle soluzioni di intelligenza artificiale.
E con questi esempi si potrebbe continuare a lungo. Credo che il concetto semplice che ci si possa portare a casa è che Microsoft sta cercando, come altri, di mettere insieme la ricerca sull’intelligenza artificiale e quella di prodotto, per fare in modo che l’utilizzatore finale, privato o business, sviluppatore o semplice utente consumer possano godere di un’esperienza migliore nell’uso dei prodotti del gigante di Redmond.
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