
Innovativi elettrodi potrebbero consentire al cervello di collegarsi ai computer.
L’intelligenza artificiale che aiuta ad identificare e prevenire i furti in negozio.
Mappatura preventiva, robotica e droni a servizio della gestione delle calamità naturali.
Cosa è innovativo e futuristico oggi per la NASA? Il progetto NIAC sugli Advanced Concepts.
Cosa è il data labelling. Un algoritmo di apprendimento che tanto automatico non è.
CABLAGGIO CEREBRALE
Un team di scienziati, alcuni dei quali hanno lavorato per Elon Musk, ha messo a punto una metodologia per impiantare efficacemente elettrodi nel cervello dei ratti. Il processo, una sorta di cablaggio elettrico del cervello, descritto in un documento accademico inedito, è un passo importante verso un potenziale sistema per collegare il cervello umano direttamente ai computer.
Per il progetto rat-brain, il DARPA, cioè la U.S. Defense Advanced Research Projects Agency, ha assegnato 2,1 milioni di dollari all’Università della California a San Francisco, dove la maggior parte del lavoro è stato fatto in collaborazione con un laboratorio a Berkeley. Il direttore del DARPA’s Biological Technologies Office ha dichiarato “Sebbene siano necessarie ulteriori ricerche per perfezionare il sistema di interfaccia globale e integrare meglio i suoi componenti, questi sviluppi potrebbero in ultima analisi aprire la possibilità di raggruppare robotica di nuova generazione, software basato sull’intelligenza artificiale ed elettronica per creare alternative alle attuali tecniche neurochirurgiche”.
Gli autori definiscono il loro sistema una “macchina da cucire” per il cervello. Hanno rimosso un microscopico pezzo del cranio di un ratto in laboratorio ed inserito un singolo ago che invia elettrodi flessibili nel tessuto cerebrale. I ricercatori ora chiedono un feedback sul loro lavoro prima di sottoporlo alla revisione tra pari e alla pubblicazione in una rivista scientifica.
Gli scienziati hanno lavorato per anni su come collocare gli elettrodi nel cervello, causando il minor danno o infiammazione possibile, perché è questo il problema ancora irrisolto oggi. Una delle sfide principali è la realizzazione di elettrodi altamente flessibili che possono muoversi con il cervello, ma devono essere abbastanza rigidi da poter essere inseriti nel punto giusto.
La macchina da cucire utilizza una tecnica innovativa per risolvere questa sfida. Utilizza un ago rigido per inserire nel cervello un elettrodo polimerico piegabile e sottile, lungo solo pochi millimetri, in grado di andare in profondità. La macchina inietta un elettrodo ogni pochi secondi, molto più velocemente dei metodi alternativi. In allegato c’è un piccolo circuito stampato, che si trova sul retro della testa del ratto e registra i segnali dal cervello.
Per quanto sgradevole possa sembrare l’indagine cerebrale, i risultati potrebbero aiutare gli scienziati a comprendere meglio l’organo più enigmatico della vita. Elon Musk, che è proprietario della società Neuralink, dalla quale provengono alcuni degli studiosi che hanno realizzato questi prototipi di elettrodi di nuova generazione, ha detto in un’intervista di due anni fa che sperava di ottenere un progresso tecnico utile nel trattamento delle lesioni cerebrali gravi entro il 2021.
Oltre a questo, la scienza potrebbe espandere la capacità della razza umana, sempre secondo Musk. Ha dato un esempio in cui le persone potevano comunicare concetti complicati telepaticamente. Le sue parole sono state “Non c’è bisogno di verbalizzare a meno che non si voglia aggiungere un po’ di stile alla conversazione o qualcosa del genere”, un’affermazione non sorprendente detta da un personaggio che è molto più timido di quello che appaia, anche se personalmente non riesco a vedere questo potenziale sviluppo, come una miglioria, se non in contesti molto specifici.
In realtà, questa tecnologia potrebbe aprire alla questione ancora più controversa se un giorno gli esseri umani si fonderanno con le macchine. In un certo senso, gli esseri umani hanno già iniziato questo percorso, basta pensare a quanto sia invasivo ed omnicomprensivo il nostro rapporto con lo smartphone, ma qui si potrebbe arrivare ad un futuro fantascientifico in cui si scarica una lingua straniera o un contenuto che si desidera apprendere, nella propria mente. Anche se è meglio evitare voli pindarici: gli elettrodi nel cervello oggi, servono prevalentemente per studiarlo e conoscerlo, specialmente in caso di malattie, più che per introdurvi contenuti, però di sicuro potrebbero essere una strategia abilitante. Ma Musk, come suo solito, immaginava obiettivi ancora più grandi, come per esempio dare alle persone la capacità di sfidare macchine super-intelligenti prima che diventino malevoli.
Senza però allontanarsi troppo dal tema comunicazione cervello – computer, questa settimana è stata pubblicata anche un’altra notizia che va nella stessa direzione di quanto detto finora. I ricercatori della Purdue University, dicono di aver sviluppato un nuovo “materiale quantico” che un giorno potrebbe consentire di trasferire informazioni direttamente dal cervello umano al computer. La ricerca è in fase iniziale, ma invoca idee come il caricamento di cervelli nel cloud o l’interfaccia tra persone e computer per monitorare le metriche dello stato di salute, concetti che fino ad ora esistevano solo nella fantascienza.
Il nuovo materiale quantico è un “reticolo di nichelato” che, secondo gli scienziati, potrebbe tradurre direttamente i segnali elettrochimici del cervello in attività elettrica che potrebbe essere interpretata da un computer. In questo momento, il nuovo materiale può solo rilevare l’attività di alcuni neurotrasmettitori, quindi non possiamo certo ancora caricare o scaricare un intero cervello, figuriamoci, ma se la tecnologia progredisce, i ricercatori ipotizzano che potrebbe essere utilizzata per rilevare malattie neurologiche, o forse anche per memorizzare i ricordi ed accedervi per i più svariati motivi, anche quando le funzioni neurologiche si sono deteriorate.
Insomma, gira che ti rigira, per parlare di futuro non serve andare lontanissimo, nello spazio, in altre galassie o in mondi lontani, basta entrare nella nostra testa.
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INTELLIGENZA ARTIFICIALE ANTI-TACCHEGGIO
Il sistema di rilevamento VaakEye, che è un’espressione che si può tradurre impropriamente come “occhio frequente”, è in grado di prendere le immagini provenienti da tutte le telecamere di sicurezza di un locale, in real-time ovviamente, ed utilizzando l’elaborazione fatta da un algoritmo di intelligenza artificiale, rileva quando qualcuno commette un furto.
Oggi ha già un’accuratezza dell’81% e probabilmente come la maggior parte dei sistemi di apprendimento automatico, migliorerà con l’esperienza, cioè grazie ad ore di registrazione.
Già distribuito in oltre 50 negozi in tutto il Giappone, il sistema VaakEye monitora costantemente i filmati delle telecamere di sicurezza, rileva attività sospette e avvisa il personale, che può rivedere istantaneamente i filmati ed agire di conseguenza. E l’azienda si prepara a lanciare anche l’auto-checkout in stile Amazon.
Come raccontato da un bell’articolo di New Atlas, il primo prodotto dell’azienda, è stato lanciato a marzo come servizio in abbonamento. Con un costo di 162 dollari al mese per telecamera di sicurezza nel vostro negozio, si tratta di un sistema intelligenza artificiale di deep learning basato su cloud che monitora costantemente i filmati in arrivo, rilevando automaticamente i “comportamenti sospetti” e inviando istantaneamente avvisi ai dipendenti del negozio. Azioni come guardarsi intorno con ansia, cercando le telecamere, muovendosi un po’ più velocemente del normale, possono sfuggire all’occhio umano, ma non ad una telecamera. Può anche vedere quando gli oggetti dagli scaffali vengono intascati o infilati in una borsa. Ogni comportamento che il sistema rileva è ponderato per sospettosità, e una volta che un cliente raggiunge una certa soglia, il sistema invia il suo avviso, completo di video clip, al membro del personale appropriato. Analizza il movimento umano in più di 100 punti in tutto il corpo, e l’azienda ritiene di essere presto in grado di rilevare anche altri tipi di comportamento antisociale, tra cui aggressioni fisiche e movimenti più complessi.
Il sistema è stato addestrato su più di 100.000 ore di riprese, sia utilizzando attori per simulare situazioni criminali sia passando attraverso enormi quantità di dati reali delle telecamere di sicurezza.
Se 162 dollari, cioè circa 140 euro a telecamera al mese vi sembrano tanti, pensate che secondo la NASP, che è l’associazione americana per la prevenzione dei furti in negozio, più di 13 miliardi di dollari di beni vengono rubati ogni anno, circa 35 milioni di dollari al giorno. Si stima che 1 persona su 11 commetterà il reato di taccheggio ad un certo punto della propria vita, ma solo 10 milioni di persone sono state scoperte negli ultimi cinque anni. Infatti, secondo la NASP, solo 1 taccheggiatore su 48 viene catturato, e solo la metà circa di queste persone viene consegnata alla polizia per essere perseguita. Considerando che il valore medio del furto in USA, anche se sono stato in grado di reperire solo una statistica del 2009, è 438 dollari, chiaramente il gioco vale la candela.
Ma questo tool di fatto funziona? Grazie, alla capacità predittiva del software, VaakEye non rileverà solo furti già avvenuti, ma, come detto, invierà avvisi sullo smartphone al personale per avvertire della presenza di personaggi sospetti. Un dipendente si avvicinerà all’obiettivo per chiedere se ha bisogno di assistenza, invece di accusare qualcuno di aver commesso un crimine che non è successo.
Quando un soggetto viene avvicinato, statisticamente le probabilità di taccheggio diminuiscono. La chiave è quella di prevenire i furti e il sistema sembra avere un track record impressionante. Secondo fonti giapponesi, dal suo lancio, il 12 dicembre 2018, i casi di furto sono diminuiti di oltre il 75 percento.
Ma il progetto dell’azienda giapponese non finisce qui. L’evoluzione “naturale” del servizio consiste nel consentire il check-out senza coda e senza cassa. Utilizzando gli stessi flussi di filmati delle telecamere di sicurezza, si può rilevare ciò che i clienti prendono dagli scaffali ed offrire loro un’esperienza di acquisto completamente senza cassa, proprio come il negozio di Amazon. Invece di un account Amazon, i clienti dovranno creare un account dedicato sui loro dispositivi mobili e fare clic su un pulsante per far sapere al negozio che sono lì a fare shopping. Il sistema tiene traccia di ciò che prelevano o riposano sullo scaffale, ed addebita automaticamente quello che hanno prelevato quando escono dal negozio.
Davvero un progetto interessante, che parte da dati ampiamente destrutturati come quelli del movimento del corpo rilevati dalle telecamere, per arrivare ad applicazioni ben strutturate e funzionali. Potere dell’intelligenza artificiale, ma anche della creatività umana.
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TECNOLOGIA E SOCCORSI IN CASO DI CALAMITA’
L’intelligenza artificiale e la robotica stanno trasformando la modalità con cui operano i soccorsi in caso di calamità. E per fortuna, direi, visto che negli ultimi 50 anni, la frequenza delle catastrofi naturali registrate è aumentata considerevolmente.
La prima tecnologia di rilievo è quella della cosiddetta mappatura predittiva. Quando si tratta di interventi di emergenza immediati e ad alta precisione, i dati possono essere davvero fondamentali. E i dati in sé non mancano. Con l’ascesa delle costellazioni di piccoli satelliti nello spazio e dell’infrastruttura di telecomunicazioni 5G, siamo in procinto di collegare tutti gli individui del pianeta, anche quelli che oggi chiamiamo “gli ultimi”.
Questo aumento della connettività, garantirà presto a chiunque la possibilità di trasmettere dati taggati geograficamente, come per esempio, banalmente la propria posizione o richieste di aiuto, dati utilissimi nei contesti di disastri naturali e conflitti armati.
Quelle che fino ad oggi sono state operazioni di salvataggio a senso unico, cioè soccorritori connessi in modo magari non troppo evoluto a caccia di sopravvissuti silenziosi, evolveranno in un vero e proprio dialogo a due vie tra folle collegate e sistemi di supporto intelligenti. Immaginiamo per un attimo situazioni in cui in mezzo a piogge torrenziali, incendi, o in caso di infrastrutture in avaria, si possa sapere esattamente dove sono le persone da raggiungere. Senza contare tutte le situazioni di pericolo che in alcuni paesi sono causati da attacchi armati, sommosse, guerre civili, terrorismo e così via.
Ma se la grande quantità di dati può essere utile in fase reattiva, lo sarà ancora di più in fase predittiva: per esempio per prevedere la dinamica di un’alluvione o identificare gli obiettivi più vulnerabili di uno tsunami prima ancora che colpisca. Sono tutti modi virtuosi per usare le nostre impronte digitali e valorizzare per il bene comune le informazioni che lasciamo che sui nostri movimenti. Chissà cosa sarebbe successo se avessimo avuto queste tecnologie in quell’ultima settimana di agosto del 2005, quando l’uragano Katrina ha spazzato via New Orleans, causando danni per oltre 80 miliardi dollari e migliaia di morti e sfollati sui tetti, immagini ancora difficili da dimenticare.
Ma oltre ai dati, servono poi le attività concrete e quello che abbiamo all’orizzonte sono soluzioni autonome per robot e sciami di robot. Mentre i progressi dell’hardware convergono con l’esplosione delle capacità di intelligenza artificiale, i robot per i soccorsi in caso di calamità, stanno passando rapidamente dall’avere meri ruoli di assistenza ad essere soccorritori completamente autonomi.
Nato dal Biomimetic Robotics Lab del MIT, il Cheetah III è solo uno dei tanti robot che possono costituire la nostra prima linea di difesa in tutto, dalle missioni di ricerca e salvataggio in caso di terremoti alle operazioni ad alto rischio nelle zone dove le radiazioni sono pericolose o mortali. Ora in grado di correre a 6,4 metri al secondo, Cheetah III può anche saltare fino ad un’altezza di 60 centimetri, determinando autonomamente come evitare gli ostacoli man mano che si presentano.
Inizialmente progettato per svolgere compiti di ispezione spettrale in ambienti pericolosi, come gli impianti nucleari o le fabbriche chimiche, le varie iterazioni di Cheetah si sono concentrate sull’aumento della capacità di carico utile, della gamma di movimenti possibili sino ad arrivare ad una funzione di presa con una grande destrezza.
Anche sul fronte degli incendi boschivi, che diventano sempre più indomabili, basta pensare alle immagini che ci sono arrivate dalla California l’anno scorso, la produzione in grandi volumi di robot potrebbe rivelarsi un vero salvavita. In combinazione con la mappatura predittiva degli incendi boschivi e veicoli autonomi di trasporto, soluzioni come il Cannon Bot di MHi, potranno salvare infinite vite umane. Cannon è un robot autonomo dotato di intelligenza artificiale per spegnere incendi in autonomia in grado di sparare schiuma o acqua a 4.000 litri al minuto.
Ed il bello è che oltre ad usare singoli dispositivi, magari di grandi dimensioni, siamo ormai in grado di operare interi sciami di robot volanti o striscianti che insieme ai droni, possono lavorare di concerto per ispezionare, trovare feriti sotto le macerie o semplicemente trasportare medicine o generi di primo aiuto. Ed infatti i droni sono il terzo grande pilastro di questa evoluzione delle tecnologie di soccorso in caso di calamità. Non solo i droni consentono di ottenere immagini ad alta risoluzione per la mappatura in tempo reale e la valutazione dei danni, ma le ricerche preliminari dimostrano che superano di gran lunga le squadre di soccorso a terra nella localizzazione di sopravvissuti isolati. Senza contare la consegna di medicine, cibo e generi di prima necessità.
Uno degli esempi più stimolanti finora è Zipline. Creato nel 2014, Zipline è un drone che ha completato 12.352 consegne salvavita. Mentre i droni sono progettati, testati e assemblati in California, Zipline opera principalmente in Ruanda e Tanzania, assumendo operatori locali e fornendo a oltre 11 milioni di persone l’accesso immediato alle forniture mediche. Fornendo di tutto, dai vaccini e farmaci anti-HIV alle provette, i droni di Zipline superano di gran lunga i trasporti terrestri, trasportando in molti casi cellule ematiche, plasma e piastrine in meno di un’ora, in luoghi ove spostarsi a terra è più lento e pericoloso. Mi piacerebbe sperare che queste tecnologie non debbano mai servire e possano restare i giocattolini di scienziati un po’ matti in giro per il mondo, ma siccome non è così, per fortuna esistono, evolvono e con l’aumento della capacità di calcolo dei computer e la convergenza tra hardware, intelligenza artificiale e 5G, l’auspicio è che diventino sempre più efficaci.
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PROSSIME INNOVAZIONE DELLA NASA
La NASA vuole sviluppare tute spaziali auto-guaritrici, lander per esplorare Venere e sonde ragno per analizzare l’atmosfera di altri pianeti. L’innovativo programma di concetti avanzati dell’agenzia spaziale finanzia infatti 18 nuovi progetti che potrebbero cambiare il modo in cui esploriamo l’universo.
Anche se molti dei progetti selezionati dal programma della NASA Innovative Advanced Concepts (NIAC) sembrano essere stati strappati dalle pagine dei migliori romanzi di fantascienza, c’è la possibilità che diventino realtà nel prossimo decennio. Il programma NIAC prevede premi fino a 500.000 dollari per sviluppare tecnologie rivoluzionarie che andranno a beneficio del volo spaziale umano e delle missioni di esplorazione cosmica.
Quest’anno, il NIAC ha selezionato 12 progetti per la Fase I, per un valore di circa 125.000 dollari, e 6 premi della Fase II, per un valore fino a 500.000 dollari. Gli studi di Fase I sono progetti esplorativi di nove mesi che permettono ai ricercatori di sviluppare ulteriormente le loro idee, mentre gli studi di Fase II offrono loro una finestra di due anni per far progredire ulteriormente le tecnologie e delineare come potrebbero dare vita ad applicazioni pratiche. Perché è chiaro che per quanto possa essere bella un’idea, lo scoglio successivo, probabilmente quello più duro è che si possa realizzare e funzioni davvero.
Vediamo alcune di queste potenziali innovazioni.
Il concetto di lander venusiano consiste in una “architettura a doppio veicolo” che vedrebbe una navicella spaziale orbitante raccogliere energia dall’atmosfera venusiana e poi scendere verso la superficie di Venere per “trasmettere” quell’energia ad un lander. L’idea estenderebbe le missioni alla superficie di Venere fornendo al lander una fonte costante di energia in un ambiente particolarmente sgradevole per i visitatori terrestri. Una sorta di power beaming, cioè di trasmissione di energia wireless, in grado di fornire energia a terra, nella quantità e per tutto il tempo necessari, quanto meno fino a che il generatore volante sarà in grado di salire e scendere come uno jo-jo per raccogliere energia da una parte e trasmetterla dall’altra.
Sempre in tema di analisi dell’atmosfera di altri pianeti, è stato elaborato un concetto che prevede l’impiego di migliaia di micro-sonde per lo studio delle atmosfere planetarie. Ogni microsonda, con una massa totale di circa 50 mg, avrà una piccola capsula appesa sotto un anello di corda lungo 200 m, che fornisce resistenza atmosferica, mentre due bracci elettrici, lunghi circa 2,5 m ciascuno, raccolgono una piccola quantità di elettricità per alimentare la sonda. La capsula conterrà dispositivi di immagazzinamento e conversione dell’energia, oltre a microprocessore, radio e sensori integrati. I movimenti delle microsonde possono essere regolati lungo la direzione verticale, un po’ come fanno i ragni mongolfiera, in modo che restino a galleggiare nell’atmosfera per lungo tempo, raccogliendo informazioni preziose, mentre magari si svolgono operazioni di esplorazione a terra.
Un’altra brillante idea si basa su una nuova visione della topografia lunare: alcune analisi suggeriscono che ci sono grandi aree di atterraggio in piccoli crateri vicini ai poli lunari, sulle quali la superficie è permafrost all’interno dei crateri dove c’è buio perpetuo, mentre la luce solare è disponibile ad altitudini appena superiori che vanno dai 10 ai 100 metri. Dipende insomma dalla profondità del cratere. In questi futuri siti di atterraggio, dispositivi solari dispiegabili, tenuti verticalmente, in piedi come alberi, potrebbero fornire energia continua. Ciò significa che un veicolo pensato ad-hoc potrebbe sedersi sul permafrost ghiacciato con pannelli solari che forniscono energia elettrica in loco. Ma perché proprio sul permafrost? Perché a quanto pare è il posto migliore dove scavare e catturare i residui dei vari materiali contenuti nel ghiaccio. Facendolo sublimare attraverso una combinazione di radiofrequenze, microonde e radiazioni infrarosse che riscaldano il permafrost, le sostanze contenute migrano verso l’alto e vengono immagazzinate in forma liquida. Un mining senza trivelle per dirla in altri termini.
Ma anche senza essere così sofisticati, anche la tuta che si auto-ripara potrebbe rappresentare una svolta per l’esplorazione extra-terrestre. La nuova tuta spaziale intelligente per l’attività extraveicolare su Marte e altri ambienti planetari, aumenta le prestazioni umane di un ordine di grandezza su diversi fronti. La tuta spaziale SmartSuit proposta, pur essendo pressurizzata a gas, incorpora anche una tecnologia soft-robotics che permette agli astronauti di essere altamente mobili e di interagire meglio con l’ambiente circostante. La tuta spaziale incorpora anche una pelle morbida ed estensibile, situata nello strato esterno che non solo protegge l’astronauta, ma raccoglie anche i dati attraverso sensori trasparenti integrati e incorporati nella membrana. Questi sensori sono in grado di visualizzare visivamente le informazioni ambientali e strutturali della membrana, fornendo un feedback visivo a chi li indossa, sull’ambiente circostante.
Insomma, se nella puntata 8 ho voluto guardarmi attorno e vi ho raccontato alcune delle innovazioni storiche della NASA che oggi usiamo nelle nostre case, senza neanche saperne la storia, oggi mi ha fatto piacere raccontarvi cosa è futuristico adesso per la NASA, perché senza dubbio questo ente era e resta una delle migliori fonti di ispirazione di qualsiasi futurologo.
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DATA LABELLING: I SEGRETI DIETRO L’APPRENDIMENTO AUTOMATICO
Kumaramputhur è un piccolo villaggio a circa 45 km a nord-ovest di Palakkad nella regione di Kerala in India, che ospita circa 3.500 famiglie. Probabilmente non è molto più grande di un qualsiasi sobborgo medio di Bangalore, non ha un’industria primaria di cui parlare, il tasso di alfabetizzazione è inferiori a quello dello stato e con il nostro sguardo di occidentali pare non avere davvero niente di speciale.
È in questo villaggio però che Mujeeb Kolasseri, un ragazzo di 28 anni che ha abbandonato la scuola superiore, gestisce un team di oltre 200 dipendenti che lavorano a soluzioni di intelligenza artificiale per clienti in America, Europa, Australia e Asia. E’ il fondatore di Infolks, un’azienda che ha fondato tre anni fa.
La maggior parte del suo team è impegnata nell’evidenziare ed etichettare le immagini di veicoli, semafori, segnali stradali e pedoni catturati da telecamere fissate su veicoli autonomi. L’aspetto più difficile di questo lavoro è proprio la marcatura dei dati catturati dai sensori remoti chiamati LIDAR, che crea mappe 3D per i veicoli autonomi per acquisire consapevolezza degli oggetti che li circondano. Una consapevolezza che l’intelligenza artificiale non potrebbe mai maturare se nessuno le “spiegasse” che cosa sta osservando.
E non è certo l’unico caso in India. A circa 2.000 km di distanza, vicino alle rive del fiume Hooghly a Metiabruz, ai margini sud-occidentali di Kolkata, circa 200 donne stanno etichettando immagini che saranno utilizzate per allenare algoritmi in veicoli autonomi e sistemi di realtà aumentata. In questo caso stiamo parlando della iMerit, un’azienda di annotazione dati con sede in India e negli Stati Uniti, che è uno dei tanti artefici a noi ignoti dei progressi delle intelligenze artificiali, di cui sentiamo parlare quotidianamente. Persone che etichettano milioni di dati per aiutare a formare e potenziare gli algoritmi di IA sviluppati dalle aziende di tutto il mondo.
La prima generazione di indiani che ha approcciato questo lavoro lo ha fatto principalmente attraverso il crowdsourcing, ma oggi i clienti esprimono requisiti più avanzati: con i clienti aziendali molto preoccupati per la sicurezza dei dati, soprattutto se si considera che molti dei set di dati sono proprietari, diventa più difficile per loro fidarsi dei lavoratori su reclutati su tali piattaforme e quindi fioriscono aziende locali, che hanno personale qualificato, controlli di qualità ed a volte anche software di labelling o etichettatura sviluppati ad-hoc.
L’etichettatura dei dati è un processo attraverso il quale i set di dati – provenienti da fonti non strutturate come fotocamere, sensori, e-mail e social media, tra gli altri, così come da fonti strutturate come i database – sono etichettati, contrassegnati, colorati o evidenziati per evidenziare differenze, somiglianze o tipi di dati. In questo modo, quando i dati vengono inseriti in un algoritmo per l’addestramento di un sistema di intelligenza artificiale, l’algoritmo può giustamente identificare i dati ed imparare da essi.
Diciamo che si vuole addestrare un algoritmo per comprendere la segnaletica stradale utilizzando immagini catturate da una telecamera a bordo di un veicolo. Gli annotatori di dati o etichettatrici analizzano le immagini e contrassegnano o evidenziano i segnali stradali usando strumenti di annotazione. La prossima volta che l’algoritmo incontra un segnale stradale durante un viaggio mentre il veicolo è in movimento, dovrebbe essere in grado di riconoscere il segnale. Più immagini dei segnali stradali su cui l’algoritmo è addestrato, migliore è la sua accuratezza.
Ed in termini di tempi i numeri sono davvero impressionanti. Se si parla di guida autonoma, dietro ad un’ora di dati video sui quali l’algoritmo si allena ci sono circa 800 ore di lavoro di etichettatura. Oggi, secondo il rapporto Cognilytica, la preparazione dei dati, le attività di pulizia degli stessi e di etichettatura rappresentano oltre l’80% del tempo impiegato nella maggior parte dei progetti di intelligenza artificiale e di apprendimento automatico. Ma evidentemente il gioco vale la candela, il mercato globale per le soluzioni di preparazione dei dati rilevanti per l’apprendimento automatico dovrebbe raggiungere 1,2 miliardi di dollari entro la fine del 2023, dai circa 500 milioni di dollari nel 2018.
Mentre gli indiani lavorano su dataset provenienti dalle aree più svariate come la sanità, la robotica e l’agricoltura, circa il 75% del loro lavoro riguarda i veicoli autonomi e non sembra destinato a diminuire, anche se ovviamente, una volta che l’algoritmo ha appreso, in linea teorica il cliente è perso, a meno che non inizi un nuovo progetto.
Quindi anche quando diciamo con troppa facilità che l’algoritmo impara da solo o l’apprendimento è automatico, ricordiamoci che dietro queste affermazioni ci sono milioni o miliardi di ore di lavoro di migliaia di persone. Un lavoro che non va confuso con lo sfruttamento. La strategia di iMerit è incentrata sulla qualità del proprio personale: circa l’80% dei suoi 2.000 dipendenti proviene da famiglie con redditi inferiori a 100 dollari al mese e circa la metà di loro sono donne. La creazione di occupazione tecnologica tra le comunità svantaggiate e nei territori dove ci sono meno aziende o industrie è un elemento positivo di sviluppo.
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