
L’intelligenza artificiale di IBM è in grado di stimare quando un dipendente vuole lasciare l’azienda.
I trend futuri nel mondo del lavoro e le professioni del 2040.
Scoperti anticorpi in grado di ringiovanire il cervello. Elisir di lunga vita?
Alcuni tipi di laser potrebbero smaltire le scorie nucleari risolvendo un problema planetario.
Le batterie delle auto elettriche ed il loro profilo di rischio. Fact checking.
INTELLIGENZA ARTIFICIALE DI IBM E RISORSE UMANE
L’intelligenza artificiale di IBM può prevedere con un’accuratezza del 95% che i lavoratori stanno pianificando di abbandonare il proprio lavoro. Nonostante questa percentuale detta così, senza troppi dettagli, sembri figlia della solita comunicazione enfatica che vuole attirare l’attenzione, per un’azienda che ha 350.000 dipendenti nel mondo e riceve ogni giorno 8.000 curricula, la gestione delle uscite e delle entrate di risorse umane è un tema serio.
Il trend di adozione dell’intelligenza artificiale nel mondo delle risorse umane, ovviamente può avere risvolti positivi o negativi a seconda delle circostanze. Da una parte il freddo dato ci dice che IBM ha potuto ridurre del 30% il team delle proprie risorse umane automatizzando una serie di processi, dall’altra però questo, avrebbe fatto risparmiare circa 300 milioni di dollari in costi di retention, cioè quelli che un’azienda sostiene per tenere i propri dipendenti. L’intelligenza artificiale infatti può essere utile per fidelizzare i dipendenti e convincerli a restare in un ambiente positivo, perché può identificare opportunità di formazione, istruzione, promozioni e carriera che le persone che lavorano nelle risorse umane potrebbero non cogliere.
IBM HR ha un brevetto per il suo “programma di attrito predittivo”, una brutta espressione italiana che in inglese suona come “predictive attrition program”, che è stato sviluppato grazie a Watson per prevedere il rischio di dimissioni dei dipendenti e per suggerire azioni in capo ai manager per coinvolgere i dipendenti.
Watson è un sistema di intelligenza artificiale, in grado di rispondere a domande espresse in un linguaggio naturale, sviluppato all’interno di IBM. Un nome scelto in onore del primo presidente dell’IBM, Thomas J. Watson.
Tra i compiti che i reparti delle risorse umane e i dirigenti aziendali hanno faticato ad eseguire efficacemente, e in cui l’intelligenza artificiale svolgerà un ruolo più importante in futuro, c’è quello di mantenere i dipendenti su un chiaro percorso professionale e identificare le loro competenze.
L’affermazione è sicuramente in linea con le dimensioni del colosso americano: capire qual è il “superpotere” di 350.000 dipendenti ed offrire loro opportunità di crescita e di remunerazione coerenti con le loro capacità ed i loro comportamenti è molto complicato se affidato solo all’uomo. E’ più digeribile, se un algoritmo fa parte dello sforzo.
Ma il sistema di IBM ha anche consentito di eliminare un tradizionale e pesante processo di HR: la revisione annuale delle prestazioni. La tecnologia IBM è in grado di monitorare i dipendenti, per esempio visualizzando le attività che stanno completando o i corsi di formazione che hanno seguito. Tutti gli ingredienti della ricetta non sono volutamente noti, ma il riscontro interno sembra positivo.
I performer mediocri, nel frattempo, non saranno un “problema” affrontato solo dai singoli manager. IBM sta utilizzando centri di soluzioni “pop-up” per assistere i manager nella ricerca di prestazioni migliori dai loro dipendenti, cioè gruppi specializzati o entità collaborative create per concentrarsi su aree in cui vi è una lacuna di conoscenze o competenze.
So benissimo che quando si parla di monitoraggio dei dipendenti, lo scenario è quello del grande fratello, di un sistema che legge le email, che verifica gli accessi, che legge quali software e quali app utilizzi, che esce dalla sfera lavorativa per entrare in quella personale.
E quindi si potrebbe parlare di privacy e diritti. Ma a mio avviso, la parte importante di questa storia, non è tanto quello che fa IBM in se, per i propri dipendenti o come lo fa, ma la filosofia pervasiva che c’è dietro. Le persone hanno competenze che non sono immutabili, possono essere apprese, migliorate o persino perse se non vengono messe in pratica. L’incapacità di analizzarle significa fossilizzare le proprie persone e perdere capacità competitiva. Ma più che altro significa scoprirsi inadeguati quando il mondo sarà cambiato. E cambia velocemente.
Il CEO di IBM ha affermato “Prevedo che l’intelligenza artificiale cambierà il 100% dei posti di lavoro nei prossimi 5-10 anni”. Ancora una volta, se ci pensate bene, è una frase che non vuol dire quasi nulla in concreto, e quindi sono andato ad investigare il contesto in cui è stata esclamata ed ho scoperto che va integrata con un’affermazione decisamente intrigante: “Mentre solo una minoranza di posti di lavoro scomparirà, la maggior parte dei ruoli che rimarranno richiederanno alle persone di lavorare con l’aiuto dell’analytics e di una qualche forma di intelligenza artificiale e ciò richiederà un addestramento delle competenze su larga scala”. E su questo non posso che trovarmi d’accordo. Volevo chiudere però questo episodio con uno spunto in più sull’argomento. Se l’intelligenza artificiale può aiutare IBM a capire quando un dipendente probabilmente prenderà il volo e lascerà scoperta una posizione da coprire, potrebbe aiutare anche un disoccupato in cerca di lavoro a capire dove e quando quella posizione si libererà. Oppure semplicemente qualcuno che vuole cambiare lavoro. Insomma, se qualcuno potesse dire con un’accuratezza del 95% se e quando cambierò lavoro, potrebbe portarsi avanti a contattare la mia azienda per proporsi come sostituto. Se vi ho appena dato l’idea di una startup che non esiste, reclamo sin da ora una quota dei futuri profitti.
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I TREND FUTURI DEL MONDO DEL LAVORO
Che tu sia un ottimista che pensa che le nuove tecnologie aiuteranno a creare nuovi posti di lavoro o uno tra coloro che sono preoccupati che un robot possa sostituirti e lasciarti a piedi, una cosa è certa: il mondo del lavoro sta attraversando un periodo di cambiamenti senza precedenti a causa delle macchine, dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Il precedente episodio sull’intelligenza artificiale usata da IBM, mi ha stimolato ad andare a ricercare in che modo evolverà questo lavoro e quali doti saranno richieste.
Non voglio entrare nella diatriba se le macchine creano o tolgono più posti di lavoro e che segno ha il saldo, ma di sicuro i modelli occupazionali ed il modo di lavorare evolvono, cambiano. Qualcuno però ci sta aiutando a capire la direzione. Un’indagine globale che ha coinvolto 5.000 professionisti delle risorse umane, combinata con un’analisi di dati comportamentali, condotta da LinkedIn, la famosa piattaforma di incontro e scambio professionale, ha rivelato le quattro tendenze che più probabilmente influenzeranno lo sviluppo delle nostre carriere nel breve termine.
Vediamole insieme.
Primo: l’attenzione al ruolo delle soft skills. Il termine “soft skills” difficilmente rende giustizia alla complessa combinazione di capacità che descrive: empatia, intelligenza emotiva, creatività, essere in grado di collaborare e comunicare, per citarne solo alcuni. Pur non essendo studiate nei corsi di MBA e PhD, le soft skill o con una pessima traduzione italiana, le “competenze trasversali” stanno diventando più importanti che mai. Tanto che l’80% degli intervistati da LinkedIn afferma che stanno crescendo in importanza per il successo aziendale, mentre l’89% ha evidenziato una mancanza di attenzione alle soft skills tra le assunzioni nella propria organizzazione. Come dire, abbiamo capito che sono importanti, ma ancora non vengono prese in considerazione ed esaminate in modo adeguato. O almeno non sempre.
La seconda tendenza da tenere d’occhio è la flessibilità del lavoro. Non molto tempo fa, essere in grado di lavorare da casa era raro, già di questi tempi, è molto più comune. La flessibilità del lavoro sta diventando la norma, tanto che la sfida per le organizzazioni che sono ancora indietro sull’argomento non è quando o come farlo, ma quanto velocemente fornire questa opportunità alle proprie persone.
Le richieste di flessibilità sono in aumento e la tecnologia è in parte responsabile di questo cambiamento di aspettative. Dall’e-mail all’Instant Messaging fino alle conference call e alle piattaforme di social business, rimanere in contatto con i colleghi non è mai stato così facile. Ma ci sono anche cambiamenti nell’atteggiamento delle persone nei confronti del lavoro. Il concetto di un lavoro a vita a cui si era completamente dedicati non esiste più. Le persone vogliono più equilibrio. Se i datori di lavoro sono in grado di dare strumenti e impostazioni di lavoro che agevolino tale equilibrio, sono in grado di attirare le risorse migliori.
La terza tendenza, è la messa al bando delle molestie e di qualsiasi forma di sopruso nell’ambiente di lavoro. I datori di lavoro hanno l’obbligo morale di proteggere il proprio personale da soprusi e molestie. Ma per far si che le politiche anti-molestie abbiano successo, prima ancora di esplicitare principi e punizioni, bisogna promuovere una cultura aziendale corretta e solidale. Le molestie sessuali sono una piaga trasversale ad ogni settore, che colpisce persone di tutte le fasce di reddito e livelli di istruzione.
Le persone oggi per fortuna hanno meno paura di condividere le loro storie di molestie, dal 2017, #metoo è diventato un fenomeno virale. Quegli individui e organizzazioni che non adottano misure per porre fine alle molestie o trattare con coloro che molestano gli altri, rischiano un danno significativo alla reputazione.
L’ultima tendenza è la progressiva eliminazione del segreto retributivo. L’organizzazione di ricerca retributiva PayScale ha chiesto a 93.000 americani di dire quanto pensavano di essere pagati, in relazione al mercato del lavoro. Due terzi hanno sbagliato nella valutazione e molti di loro credono di essere sottopagati.
Il problema qui è che mentre nessuno sa esattamente come viene pagato rispetto a tutti gli altri, c’è una tendenza ad assumere il peggio per se stessi. Ciò genera sospetto, negatività e disaffezione. Ma la tendenza alla segretezza potrebbe finire. Secondo LinkedIn, c’è stato un aumento del 136% dal 2014 nella trasparenza delle retribuzioni nei contenuti condivisi sulla sua piattaforma.
Parlare di soldi può essere imbarazzante, ma la trasparenza delle retribuzioni può essere una buona cosa. Affrontare la cultura del segreto salariale – come per esempio costringere le grandi aziende a comunicare le differenze salariali di genere – potrebbe fare molto per aiutare a ridurre le disuguaglianze tra uomini e donne, o tra persone di razze diverse, almeno sul posto di lavoro.
Ma se tutto questo è in linea con le analisi del World Economic Forum e descrive bene le tendenze in atto da qui al 2022, cosa ci dobbiamo immaginare se estendiamo l’orizzonte a 10 o 20 anni?
Se prendiamo un bellissimo articolo del famoso futurologo Thomas Frey, ci spiega che le aree di lavoro più diffuse nel 2040 saranno: i “Robot Sherpas”, cioè quelle persone che opereranno per ottimizzare le performance dei robot, i “Data Junkies”, cioè tutti coloro che lavoreranno sui dati e gli analytics, i “Drone Command Crew”, cioè coloro impiegati nel funzionamento dei droni ed i “Personal Health Maestros”, cioè tutti quelli che avranno cura di ottimizzare le performance degli esseri umani, questa volta. A seguire lavori collegati all’intelligenza artificiale, ai veicoli a guida autonoma, la blockchain, la stampa 3D, le cryptocurrency e così via. Per entrare in questi eco-sistemi di gruppi di lavoro servirà aggiornare le skill tecniche, ma quelle di base, come la matematica, la statistica, la fisica per esempio a mio avviso resteranno sempre le stesse. Cambieranno i modi in cui le applicheremo, si svilupperanno nuovi domini. Quello su cui dovremmo concentrare la nostra attenzione non è tanto quale sarà il lavoro più diffuso nel 2040, o quali competenze esattamente serviranno per svolgerlo, ma quanto velocemente riusciremo a formare coloro che non hanno tali competenze, per non lasciarli indietro. La domanda non è se l’intelligenza artificiale si diffonderà più o meno velocemente, o se dovremo lavorare con i robot, ma se abbiamo sistemi educativi e rieducativi abbastanza agili e flessibili per seguire la velocità del mondo reale. Forse i mondi accademici istituzionali no, ma quelli on-line basati sul fai-da-te si. Tornerò sull’argomento in futuro per riflettere con voi se questo basterà.
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ANTICORPI CHE RINGIOVANISCONO IL CERVELLO
In una sorprendente ricerca appena presentata sulla prestigiosa rivista Nature, un team di neuroscienziati di Stanford ha dato la caccia e trovato un gene che contiene una proteina responsabile di perdite cognitive legate all’età, ha trattato questo gene con speciali anticorpi e dimostrato che nei topi, questi anticorpi possono far funzionare un cervello anziano come se fosse quello di un giovane.
Tutto inizia con la microglia, una classe di cellule cerebrali responsabili delle risposte immunitarie e della cosiddetta pulizia di routine, cioè cellule in grado di smaltire neuroni morti o danneggiati. Per dirla con termini semplici, sono una sorta di spazzini dei residui cerebrali. Le microglia si muovono costantemente e analizzano il sistema nervoso centrale in cerca di neuroni danneggiati, placche e agenti infettivi. Tra le varie funzioni svolte, le microglia trascorrono il loro tempo a smaltire i detriti cellulari che derivano dalla normale attività del cervello, ed è noto da tempo che le loro prestazioni di raccolta dei rifiuti si deteriorano con l’età.
L’ipotesi fatta dai ricercatori di Stanford, quasi ovvia date le premesse, è che il declino delle prestazioni di spazzino della microglia potesse essere collegato al tipo di declino cognitivo che vediamo con l’invecchiamento. Si, per esempio, sarebbero collegati a disfunzioni della microglia.
La ricerca di un gene del declino cognitivo è avvenuta lungo due linee di indagine simultanee. In una serie di esperimenti, il team ha scelto circa 3.000 geni correlati alla microglia, ed ha iniziato a bloccarli uno ad uno, in alcuni topi, per vedere quali influivano sulla capacità di pulizia e smaltimento dell’immondizia cerebrale. In un’altra serie di esperimenti, l’equipe ha preso gli stessi 3.000 geni ed ha misurato i livelli di attività di ciascuno nei topi giovani e meno giovani, cercando i geni che con l’età avevano cambiato performance nel fare pulizia.
Poi hanno confrontato i risultati tra i due studi, cercando gli insiemi di geni sovrapposti: cioè quelli che influivano sulla capacità di smaltimento e contemporaneamente si deterioravano con l’età. Si aspettavano di trovare una lunga lista di geni ed invece sono rimasti sbalorditi nel trovarne solo uno che si adatti ad entrambe le categorie: un gene noto come CD22 che si trova nei topi… ed anche negli umani. Un unico gene quindi, un solo candidato potenzialmente responsabile del declino cognitivo che la vecchiaia porta con sé.
Ma il team di Stanford non si è fermato qui. Con un possibile colpevole identificato, il team ha iniziato a bloccare i geni CD22 usando anticorpi appositamente progettati. Dopo un mese di continua infusione di anticorpi su entrambi i lati del cervello dei topi, i ricercatori hanno raggiunto un risultato sorprendente. I topi hanno migliorato le loro prestazioni su due diversi test di apprendimento e di memoria, al punto da superare significativamente i topi del campione di controllo della stessa età. Il blocco dei geni CD22 avrebbe quindi ripristinato la funzione cognitiva a livello dei topi più giovani. O, detta in altro modo, cervelli di topi vecchi che, una volta trattati, funzionano meglio dei cervelli dei topi giovani su apprendimento e memoria.
Abbiamo quindi scoperto l’elisir della giovinezza o della lunga vita? Diciamo che è troppo presto per saltare a facili conclusioni. Se state pensando ad una pillola per gli uomini che permetta alle persone anziane di apprezzare nuovamente la velocità e la memoria di quando erano ventenni, vi sbagliate. Servono ancora molte ricerche, test e approfondimenti. Non dimentichiamoci che il passaggio dalla sperimentazione sugli animali a quella sull’uomo richiede molti anni, ammesso e non concesso che poi funzioni anche sull’uomo e non produca effetti collaterali sgraditi. Ma il fatto che CD22 sia presente sia nel genoma umano che in quello del topo rende sicuramente questa area di ricerca promettente e da tenere d’occhio. Il fatto che poi i ricercatori di Stanford si siano premurati di depositare immediatamente i brevetti dietro e questa ricerca, se da una parte può essere considerata semplicemente prassi, dall’altra può indicare un ottimismo sullo sviluppo commerciale delle ricerche attorno al gene CD22. E più che altro, se da questo potessimo cominciare ad affrontare in modo nuovo e mitigare i devastanti effetti delle malattie neurodegenerative, sarebbe già un risultato sostanziale.
Ma le meraviglie della ricerca non finiscono qui. Anche a Boston sono stati compiuti incredibili passi avanti sull’argomento, ed il tutto nello stesso periodo! Gli scienziati della Boston University hanno scoperto che un declino della memoria dovuto all’invecchiamento può essere temporaneamente invertito utilizzando una forma innocua di stimolazione elettrica del cervello.
Lo studio si è concentrato su una parte della cognizione chiamata “memoria di lavoro”, una funzione del cervello che ritiene le informazioni per brevi periodi, mentre prendiamo decisioni o eseguiamo calcoli. La memoria di lavoro è fondamentale per un’ampia varietà di compiti, come riconoscere i volti, eseguire operazioni aritmetiche e muoversi in un nuovo ambiente. La memoria di lavoro è noto che declini costantemente con l’età, anche in assenza di qualsiasi forma di demenza. Si ritiene che un fattore di questo declino sia causato da una disconnessione tra due reti cerebrali, note come regione prefrontale e temporale.
Infatti, nei giovani, l’attività elettrica del cervello in queste due regioni tende ad essere sincronizzata ritmicamente, e questo permette lo scambio di informazioni tra le due aree. Tuttavia, nelle persone anziane l’attività tende ad essere meno strettamente sincronizzata e questo può essere il risultato del deterioramento delle connessioni nervose che collegano le diverse parti del cervello. Ma dopo aver stimolato un campione di individui anziani per alcuni minuti con impulsi elettrici mirati a rimettere in sincrono le due aree, la memoria di lavoro è migliorata per circa un’ora, ad un livello analogo a quello di persone più giovani.
Anche in questo caso è troppo presto per saltare a conclusioni ottimistiche. La ricerca richiede tempo. Ma anche questo esperimento lascia intravvedere una seria di opportunità per lavorare su tutte quelle disfunzioni collegate al malfunzionamento del cervello. Nuovamente l’Alzheimer, il Parkinson, ma anche la schizofrenia, oppure tutti quei problemi che inibiscono temporaneamente l’uso del nostro “computer di bordo”, come a me piace chiamare il cervello, come per esempio l’alcolismo. Quello che mi rende ottimista è che stiamo combattendo queste grandi piaghe da più fronti, quello chimico, quello elettrico, quello genetico e probabilmente non siamo lontanissimi dal trovare una soluzione, anche se temporanea, alla demenza che toglie a tante persone che hanno ancora molto da dare, la possibilità di continuare a fornire un contributo.
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I LASER POTREBBERO SMALTIRE LE SCORIE NUCLEARI
I rifiuti nucleari stoccati negli Stati Uniti sono circa 60.000 tonnellate; considerato che negli USA ci sono circa un quarto delle centrali nucleari dell’intero pianeta, una stima abbastanza realistica ci dice che quindi sulla terra ci sono oltre 240.000 tonnellate di rifiuti radioattivi.
Il gruppo ambientalista Greenpeace, infatti, stima che vi sia una riserva globale di circa 250.000 tonnellate di combustibile esaurito tossico distribuita in 14 paesi, sulla base dei dati forniti dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Di questi, 22.000 metri cubi – grosso modo equivalenti a un edificio alto tre metri che copre un’area delle dimensioni di un campo da calcio – sono pericolosi, secondo l’Agenzia stessa. Un rapporto del 2015 di GE-Hitachi ha stimato il costo dello smaltimento di scorie nucleari – al di fuori di Cina, Russia e India dove i dati sono di più difficile reperibilità – in oltre 100 miliardi di dollari.
Sappiamo tutti che l’energia nucleare può fornire elettricità poco costosa con poche emissioni, ma c’è un problema: produce orribili scorie radioattive che possono rimanere mortali per migliaia di anni. E’ quindi vero che l’energia nucleare è relativamente poco costosa in fase di produzione, ma i costi di smaltimento sarebbero enormi e le scorie potrebbero rimanere pericolose per tantissimo tempo.
Su questo tema è intervenuto Gerard Mourou, uno dei tre vincitori del Premio Nobel per la Fisica del 2018, il quale sostiene che i laser ad alta intensità potrebbero un giorno rendere innocui i rifiuti nucleari in pochi minuti. Il Premio Nobel ha teorizzato una strategia per abbattere i rifiuti radioattivi in materiale meno dannoso a livello atomico, appunto attraverso i laser.
Il nucleare, ad onor del vero, resterebbe comunque estremamente pericoloso se dovesse accadere qualcosa alle centrali in funzione, come ci ha insegnato anche la catastrofe di Fukushima del Marzo del 2011 in Giappone, ma se almeno si riuscissero a smaltire le scorie in modo rapido ed intelligente, una parte sostanziale del problema sarebbe risolta ed il nucleare diverrebbe probabilmente più attraente.
Mourou, che è un professore di fisica di 74 anni che assomiglia un po’ a Doc nel film “Ritorno al futuro”, con la sua teoria ovviamente ha catturato l’attenzione dell’industria nucleare francese e di tutto il mondo. Il lavoro del fisico ha aperto la strada agli impulsi laser più corti e più intensi mai creati. Nella sua Nobel Lecture l’8 dicembre, Mourou ha esposto la sua visione per usare la sua “passione per la luce estrema” per affrontare il problema dei rifiuti nucleari.
Citando le sue parole ha detto “L’energia nucleare è forse il miglior candidato per il futuro, ma ci rimane ancora un sacco di spazzatura pericolosa”… per poi aggiungere “l’idea è di trasformare questo spreco nucleare in nuove forme di atomi che non hanno il problema della radioattività. Quello che bisogna fare è lavorare sul nucleo.”
Il processo su cui lui e la professoressa collega Tajima stanno lavorando è chiamato trasmutazione e comporta la modifica della composizione del nucleo di un atomo bombardandolo con un laser. I due fisici hanno paragonato l’esercizio ad un colpo di karatè, talmente potente e ravvicinato da decomporre il nucleo. Le ricerche sulla trasmutazione, comunque, non sono appannaggio del solo Mourou, ma sono sforzi che proseguono da almeno tre decenni, con il contributo di Inghilterra, Germania, Belgio, Stati Uniti e Giappone. Alcune ricerche si sono rivelate fallimentari, altre promettenti. Per ora, la ricerca rimane a livello di laboratorio e la prospettiva di vedere la trasmutazione utilizzata a livello industriale è complessa, costosa e probabilmente ancora piuttosto lontana nel tempo. Però il consenso del mondo scientifico sembra essere che valga la pena insistere e dare un’opportunità alla ricerca scientifica.
Il fatto che l’attenzione sia molto alta in Francia, non è legato meramente alla nazionalità di Mourou. La Francia, infatti, è il paese che produce più rifiuti pro-capite nucleari al mondo. Con quasi il 72% della sua energia elettrica proveniente dal nucleare, genera 2 chilogrammi di rifiuti radioattivi per persona ogni anno. E sebbene solo una minima parte di questo sia altamente tossico, più di 60 anni dopo aver abbracciato il nucleare, il paese non ha soluzioni definitive, come nessun altro paese del resto.
I rifiuti più tossici, in questo momento, vengono conservati in strutture a “breve termine” (almeno in teoria…) a La Hague in Normandia, a Marcoule e Cadarache nel sud della Francia ed a Valduc, vicino a Digione. Nella struttura di La Hague, a un’ora di viaggio dalle spiagge del D-Day, i robot appositamente progettati gettano i contenitori radioattivi in involucri di vetro prima di metterli in contenitori di acciaio inossidabile. La struttura, pur essendo già la più grande al mondo per la lavorazione dei rifiuti atomici, viene costantemente ampliata, rendendo urgente una soluzione a lungo termine. Ed il tutto non è certo gratis. Oltre ai soldi che già vengono spesi per la gestione ordinaria, almeno altri 25 miliardi di euro dovrebbero essere spesi per creare un labirinto sotterraneo di gallerie vicino al villaggio di Bure, nel nordest della Francia, che potrebbe essere l’ultimo luogo di riposo per i rifiuti altamente tossici a partire dal 2025. Con tutti gli ovvi problemi che vi potete immaginare per le comunità circostanti.
Nel frattempo speriamo che il lavoro di Mourou proceda, passi dal laboratorio alla realtà e si possa stimare quanto costa in rapporto alle altre soluzioni.
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LE BATTERIE DELLE AUTO ELETTRICHE
Settimana scorsa, Ciro, un ascoltatore di The Future Of, mi ha scritto invitandomi a leggere un articolo dal titolo quantomeno preoccupante “La morte viaggia su auto elettriche: le verità scomode delle auto ecologiche”, e ad esprimermi in materia. Ed eccomi qui a condividere con voi le mie considerazioni, su questo argomento così importante.
L’autore dell’articolo parla delle batterie della auto elettriche come portatrici di rischi molto alti per l’incolumità della “popolazione stradale”.
Il problema, sempre secondo l’articolo, sarebbe legato a tre fattori:
- Primo, la scelta di utilizzare sui veicoli elettrici batterie ad alta tensione, in grado di folgorare, in alcune circostanze, gli occupanti ed eventuali soccorritori
- Secondo, la presenza del Litio all’interno di queste batterie che è infiammabile a contatto con l’acqua
- Terzo, il rischio per i soccorritori, che se impreparati potrebbero essere esposti a rischi non immediatamente percepibili
E da qui la conclusione che altri sistemi di propulsione sarebbero più adatti, meno pericolosi e i veicoli elettrici andrebbero abbandonati per evitare un vero e proprio “elettro-gate”.
Un rapido fact-checking conferma la maggior parte delle indicazioni dell’autore, ma non per questo condivido le conclusioni. Ma andiamo con ordine.
In prima battuta è vero che le batterie sono ad alta tensione. Sono in grado di accumulare tensioni di oltre 400 Volt DC ed erogare correnti fino a 125 Ampère, peggio che mettere le dita nella presa della corrente domestica. E’ anche vero però che sono collocate al centro del veicolo sotto i piedi dei passeggeri, nella posizione più protetta e meno esposta agli urti possibile. Le batterie infatti diventano pericolose in caso di rottura, fatto che può sicuramente accadere anche se sono isolate dal resto del veicolo e sono isolati persino i componenti interni di una batteria. L’autore dell’articolo dice che i produttori non sarebbero in grado di progettare le batterie prevedendo tutte le possibili dinamiche di incidente esistenti. Quando si usano gli estremi, tipo “tutti” o “nessuno”, “sempre” o “mai”, mi si drizzano sempre le antenne. I progettisti non simulano certo gli incidenti solo con i crash-test fisici, ma ormai usano modelli e software di simulazione che sono in grado di replicare milioni di situazioni diverse nel tempo di calcolo del processore. Questo vuol dire che non si possono ipotizzare tutti i casi reali, ma sicuramente i test possono ampiamente mitigare il rischio.
E’ altrettanto vero che i liquidi, o meglio i gel contenuti nelle batterie sono pericolosi. Non solo perché infiammabili, ma anche perché i loro vapori possono essere estremamente tossici. Tante batterie al litio in un veicolo che si surriscaldano in caso di incendio, tendono ad esplodere. I vigili del fuoco hanno ovviamente già testato lo spegnimento di un incendio occorso su un veicolo elettrico e confermano che serve più tempo e più acqua per domare l’incendio, circa 9.000 litri, un’enormità. Anzi secondo le indicazioni date da Tesla, per esempio, l’acqua non può estinguere il fuoco, ma raffredda le celle della batteria adiacenti, limita la propagazione delle fiamme e previene il rischio di nuovi inneschi. Secondo i pompieri, in alcuni casi la soluzione migliore, se ne ricorrono le condizioni, sarebbe lasciar bruciare il veicolo dopo aver isolato un perimetro adeguato.
Le statistiche dicono che sulle strade americane ci sarebbero incendi a veicoli ogni 3 minuti, ma a quanto pare non esistono stime precise di quanti siano elettrici e quanti a benzina o gasolio o GPL o qualsiasi altro sistema di propulsione. In assenza di ulteriori dati quindi il problema va considerato come “serio”, anche analogamente non smettiamo di usare le auto a combustibili fossili nonostante la benzina possa bruciare, come non smettiamo di volare o andare in treno perché accadono incidenti anche mortali.
In merito invece al rischio per eventuali soccorritori anche qui il problema è vero, ma servono dei distinguo. I professionisti come i vigili del fuoco si preparano ogni giorno ad affrontare le situazioni più disparate, dispongono di dispositivi di sicurezza adeguati, sanno riconoscere i veicoli elettrici e sanno come agire modello per modello. E se non hanno ancora una competenza perfetta, possiamo pensare che la stessa crescerà con la diffusione della tecnologia. Il problema semmai riguarda il personale di soccorso medico oppure persone come me o voi, che intervenendo a seguito di un incidente potrebbero trovarsi in guai enormi per incompetenza.
Proviamo però ad estendere lo sguardo al futuro prossimo. Abbiamo una grande aspettativa che sulle nostre strade si diffondano veicoli senza guidatore umano. Il consenso intorno ai veicoli a guida autonoma è che, mettendo a fattor comune miliardi di ore di guida su strada, questi diventeranno più sicuri dei veicoli guidati dagli uomini. I veicoli a guida autonoma rispetteranno i limiti di velocità, sapranno adattare l’assetto di guida alle condizioni climatiche esterne, sapranno come affrontare un’infinità di situazioni perché le avranno già affrontate collettivamente, a differenza di quello che può accadere ad un singolo essere umano. Questo non vuol dire che non ci saranno più incidenti che possano aprire la batteria di un veicolo elettrico a guida autonoma, ma stiamo parlando di un sotto-caso di un sottoinsieme. La vera domanda a mio avviso è: sopravviveranno i veicoli elettrici alla fase in cui circoleranno su strada sia veicoli a guida autonoma che veicoli a guida umana? Perché è quello il momento in cui la situazione sarà ancora molto pericolosa. Se lasciamo a terra dei Boeing 737 Max per presunti problemi legati ai software, perché non bloccare anche i veicoli con batterie che mettono a rischio la vita di occupanti e soccorritori? A meno che ovviamente il problema sia risolto alla radice progettando batterie di diversa concezione, ma questo sarà oggetto di un altro post.
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