
Gli scienziati del MIT e la tecnologia crowd per monitorare i ponti.
Google potrebbe testare a Toronto la sua visione di smart city. E la privacy?
In Estonia l’intelligenza artificiale emette sentenze in tribunale. Alle quali ci si può appellare.
Microsoft sviluppa la tecnologia per archiviare dati all’interno di DNA sintetico.
Come funziona il mercato del robot farming? E cosa possono fare davvero i robot nei campi?
MONITORAGGIO CROWD DEI PONTI
Il 14 Agosto del 2018 crollava a Genova il ponte Morandi, portando con sé un carico di vite umane e di grande sofferenza per coloro che sono rimasti. A tutti loro è dedicata questa puntata.
Quali sono le tecnologie attuali e future che ci consentono di monitorare la sicurezza di un ponte? Il problema non è chiaramente solo italiano, le statistiche derivanti da un censimento dello stato dei ponti hanno rivelato che circa il 41% dei 577.710 ponti americani sono strutturalmente carenti o funzionalmente obsoleti. Dopo l’evento di Genova, si sono mobilitati in molti per condurre delle stime sulla situazione italiana e pur non avendo un censimento completo, diverse fonti parlano di circa 10-12 mila ponti sui quali andrebbero condotti degli approfondimenti più precisi. E questa sarebbe la proporzione di quelli più a rischio sui sessantamila monitorati in Italia. Di diverse epoche, però nel nostro paese esisterebbero circa un milione e mezzo di ponti. Forse non abbiamo nemmeno una misura chiara del rischio.
In ogni caso, la strategia raccomandata per il futuro è quella di integrare la tecnologia umana, cioè l’ispezione periodica visiva e con strumenti dedicati, con analisi continue in tempo reale basate su dati raccolti da diverse fonti.
Ma andiamo con ordine. Di quali tecnologie disponiamo oggi?
Prima di tutto sistemi di sensori a fibra ottica: i segnali luminosi trasmessi attraverso le fibre ottiche vengono esaminati per determinare i cambiamenti nelle proprietà delle fibre quando una struttura viene sottoposta a sforzi. Questi sensori possono essere incorporati all’interno o collegati al ponte.
Poi abbiamo sistemi micro-elettro-meccanici: si tratta di sistemi elettronici e meccanici, piccoli come una moneta da due centesimi, in grado di raccogliere misurazioni e fornire trasmissioni di dati wireless.
Anche il caro vecchio GPS è una tecnologia utile: può essere usato per misurare i movimenti del ponte rintracciando la posizione dei trasmettitori GPS.
In alcuni casi abbiamo delle vere e proprie “scatole nere”, come quella installata sulla RA10, Torino-Caselle, il raccordo per l’aeroporto. Il sistema consiste in una serie di sensori wireless in grado di misurare nello stesso momento e nello stesso punto dove sono stati installati, la deformazione, lo spostamento, la temperatura e l’inclinazione della struttura. I dati vengono poi trasmessi in tempo reale ad una piattaforma software che li elabora con una cadenza oraria. I sensori insomma dialogano con la piattaforma attraverso la rete cellulare e laddove non ci sia elettricità possono essere alimentati con pannelli solari dal momento che il loro consumo energetico è molto basso.
Infine, abbiamo le cosiddette tecniche di misurazione senza contatto: queste acquisiscono i cambiamenti strutturali senza entrare in contatto fisico con il ponte. Un esempio è il monitoraggio basato su telecamere impiegate per acquisire immagini di un ponte, che vengono successivamente analizzate utilizzando tecniche di elaborazione e software dedicati. Le videocamere possono essere impostate per raccogliere immagini a determinate frequenze. Utilizzando fotocamere ad alta risoluzione, le informazioni estratte dalle immagini possono essere accurate come quelle raccolte con sensori di contatto sofisticati.
E’ dell’Aprile dell’anno scorso invece, una proposta completamente innovativa, proveniente dal MIT. L’obiettivo è creare una rete di sensori mobili per il monitoraggio dei ponti: così come Google si serve della posizione degli smartphone per segnalare un rallentamento o un tratto di coda, i ricercatori del MIT hanno ipotizzato la possibilità di utilizzare gli accelerometri, presenti nella dotazione di serie di qualsiasi smartphone moderno, per rilevare, per esempio, le vibrazioni che possono interessare un ponte autostradale.
Gli studiosi sono convinti che i dati registrati da uno smartphone, presente su un veicolo in movimento, contengano informazioni “significative ed affidabili”, per esempio sulle frequenze modali di un ponte, tra gli indicatori dello “stato di salute strutturale” di un’infrastruttura. L’analisi modale è lo studio del comportamento dinamico di una struttura quando viene sottoposta a vibrazione.
Gli accelerometri, sensori in grado di misurare lo spostamento del telefonino sui tre assi (altezza, lunghezza e profondità), forniscono una serie di piccole informazioni che, combinate tra loro, possono costituire un patrimonio di dati rilevanti.
Le informazioni provenienti da più smartphone, aggregate nell’ambito di un sistema di gestione dei “big data”, diventano uno strumento via via sempre più preciso e, la cosa bella, e che potremmo contribuire tutti, praticamente senza nemmeno saperlo se i dati provenissero dal nostro smartphone.
Naturalmente, l’approccio suggerito dai ricercatori non mira a sostituire il classico metodo di monitoraggio dello stato di salute dei ponti (strumentazione sofisticata e ispezioni effettuate a regola d’arte da personale specializzato), ma offre agli esperti uno strumento in più per prendere le migliori decisioni, grazie ad una mole di dati maggiore.
E i dati, o meglio i software che li analizzano, sono il cuore del sistema. Il monitoraggio della salute dei ponti non riguarda solo la raccolta delle misurazioni. Le sfide maggiori consistono nel dare un senso ai dati e fornire rapporti tempestivi e affidabili sulla salute dei ponti. In sintesi, la tecnologia esiste, è già affidabile, è ovviamente migliorabile anche grazie al contributo dell’uomo comune, forse anche in grado di compensare le mancanze umane.
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TORONTO LA SMART CITY DI GOOGLE
La società Sidewalk Labs, che si occupa di “tecnologia urbana”, e che fa capo a Google, ha presentato un avveniristico progetto per realizzare una vera e propria città intelligente sul lungolago di Toronto.
Un paradiso verde, una smart city che potrebbe portare ad una riduzione di sei volte delle emissioni di gas serra se potesse utilizzare i dati dei residenti della città canadese. Nel centro di Toronto, le emissioni di gas serra per persona sono di circa 6,3 tonnellate annue, il progetto mira a ridurle a meno di una tonnellata. Ma chiaramente il progetto non finisce qui, prevedendo spazi verdi resistenti alle inondazioni, piste ciclabili riscaldate, pannelli solari sul tetto che immagazzinano energia nelle batterie quando c’è il sole e poi restituiscono la corrente agli edifici di notte e tante altre piccole grandi attenzioni, che farebbero di Toronto una vera smart-city.
Per esempio, una delle soluzioni più intriganti prevede lo scavo di un vasto sistema sotterraneo dedicato per le radici degli alberi sotto le strade urbane. Ciò consentirebbe alberi più grandi e più spazi verdi rispetto a una città normale, aiutando anche a gestire il deflusso delle acque piovane, un problema che si prevede si intensificherà con i cambiamenti climatici.
Per ridurre i rifiuti, sistemi digitali monitoreranno ciò che i residenti buttano via, inviando loro un messaggio se sbagliano il riciclo o se stanno buttando via troppa spazzatura. I rifiuti organici saranno portati in una struttura speciale dove i microbi abbattono i rifiuti e producono gas metano che può essere raccolto e venduto.
Il progetto prevede inoltre di utilizzare i dati e l’intelligenza artificiale per analizzare i modelli di consumo di acqua ed energia, in modo che si possano abbinare meglio domanda ed offerta. I residenti generalmente fanno la doccia al mattino e cucinano la sera, provocando picchi di energia e di acqua che impattano sulle infrastrutture e sull’ambiente. Conoscerli puntualmente, significa poter ottimizzare.
Sidewalk Labs ovviamente spera che i funzionari governativi approvino il progetto. Una decisione è prevista per la fine del 2019, e se approvato, l’esecuzione potrebbe richiedere circa sei anni.
Ma i critici dicono che i benefici ambientali proposti sono solo una cortina fumogena a protezione del vero obiettivo di Google: estrarre quanti più dati personali possibili dai residenti della città canadese per aumentare i profitti di Sidewalk Labs.
La polemica intorno al progetto evidenzia la tensione tra le richieste di privacy personale e il crescente ruolo dei dati nel perseguimento della sostenibilità. I timori sono particolarmente pronunciati quando i dati vengono raccolti da società private, secondo un recente sondaggio, con il 91% dei canadesi che si oppone alla vendita delle proprie informazioni personali.
E su questo gioca quindi un ruolo determinante anche la reputazione della controparte. Il fatto che società come Google, Amazon o Facebook, non siano in grado di essere percepite come trasparenti è già un segnale forte. Va detto però, ad onor del vero, che Google si sta confrontando con la municipalità di Toronto da tempo, questo è un progetto di cui si parla dal 2017, e quindi l’approccio è giusto, anche se non basta da solo a rispondere a domande come: di chi saranno le informazioni? chi gestirà la piattaforma di raccolta dati? come questo impatterà sulla governance dell’intera comunità? Eventuali terzi saranno in grado di accedere alle informazioni generate (ovviamente a pagamento)? E così via. Senza contare che comunque Google ha dato molto a Toronto, posizionando proprio li la sua sede canadese e le attività legate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Ma probabilmente il tema della privacy e del rischio di iper-sorveglianza sono, a loro volta, argomenti usati da coloro che sono contrari al progetto per motivi ancora diversi: aspetti economici e di potere.
Sidewalk Labs ha infatti chiesto alla città di Toronto di cambiare e semplificare molte delle norme che regolano i trasporti e l’edilizia urbana, per favorire la realizzazione del progetto. Anche perché nell’area dovrebbero essere costruite 12 torri in grado di ospitare oltre 3.000 abitanti, ed un sistema di strade e tunnel sotterranei di servizio con veicoli a guida autonoma che si occupano di smistare la posta e raccogliere i rifiuti.
Ed inoltre, qualora il progetto dovesse funzionare, ed il valore delle proprietà aumentare portandosi dietro un maggiore gettito fiscale, Google vorrebbe averne una fetta. Una sorta di revenue sharing, con la comunità, del maggiore valore creato da un ambiente più sostenibile.
Ed a questo punto se si smette di parlare di tecnologia e si inizia a parlare di politica e di potere io mi fermo e, come tutti credo, resto in attesa di capire dove nascerà la prima Google City del pianeta.
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INTELLIGENZA ARTIFICIALE IN TRIBUNALE
Lo scorso agosto il governo estone ha assunto un Chief Data Officer nazionale per lanciare un nuovo progetto che mira ad introdurre l’intelligenza artificiale in vari ministeri per semplificare i servizi offerti ai residenti.
Circa il 22% degli estoni lavora per il governo, si tratta di una media in linea i paesi europei, ma superiore per esempio al tasso del 18% negli Stati Uniti. C’è quindi uno spazio per abbassare tale percentuale, ma ovviamente i cittadini chiedono che la qualità dei servizi resti invariata anche a fronte di meno impiegati pubblici.
L’intelligenza artificiale può aiutare in tal senso. A quanto pare l’Estonia ha già avviato progetti pilota che prevedono l’utilizzo di l’intelligenza artificiale o machine learning su 13 attività dove un algoritmo ha sostituito i lavoratori del governo. Ad esempio, gli ispettori non controllano più gli agricoltori che ricevono sussidi governativi per raccogliere ed imballare il fieno ogni estate. Le immagini satellitari scattate dall’Agenzia Spaziale Europea, con cadenza settimanale da maggio a ottobre, vengono elaborate da un algoritmo di deep learning per verificare l’attività nei campi, il rispetto dei confini, eventuale deforestazione e così via.
In un’altra applicazione, i curriculum di persone che hanno perso il lavoro vengono inseriti in un sistema di apprendimento automatico che incrocia le loro competenze con le necessità dei datori di lavoro. Quali i risultati? Dopo sei mesi, il 72% dei lavoratori che ottengono un nuovo lavoro tramite questo sistema, sono ancora al lavoro, confermati ed operativi, contro il 58% che si registrava prima del sistema di abbinamento basato su algoritmi.
Merita citare anche un terzo ed ultimo esempio: i bambini nati in Estonia vengono automaticamente iscritti alle scuole locali alla nascita, quindi i genitori non devono registrarsi nelle liste di attesa o chiamare le segreterie della scuola. Questo perché i registri ospedalieri vengono automaticamente condivisi con le scuole locali e l’iscrizione, così come l’allocazione geografica risulta automatica.
Ma il progetto più ambizioso fino ad oggi è quello richiesto dal Ministero della Giustizia estone che ha chiesto di progettare un “giudice robot” che possa giudicare controversie di modesta entità, almeno inizialmente, cioè quelle dove sono in ballo sanzioni ed accordi di valore inferiore a 7.000 euro. I funzionari sperano che il sistema possa contribuire ad azzerare gli arretrati di cause che ingolfano giudici e impiegati. E se l’Estonia ha arretrati, pensate alla Cina. Con solo 120.000 giudici che gestiscono 19 milioni di casi all’anno, non c’è da meravigliarsi che il sistema legale si stia rivolgendo all’intelligenza artificiale.
Il progetto è nelle sue fasi iniziali e probabilmente partirà entro la fine dell’anno con un pilota incentrato sulle controversie contrattuali. L’idea è che le parti carichino documenti e altre informazioni pertinenti su una piattaforma comune e l’intelligenza artificiale emetterà un verdetto che può essere impugnato e rimandato ad un giudice umano. Molti dettagli devono ancora essere elaborati ed in questa fase si sta raccogliendo il feedback di avvocati e giudici, perché il confronto e la condivisione sono sempre un approccio vincente.
Lo sforzo dell’Estonia non è il primo a mescolare l’intelligenza artificiale e la legge, anche se potrebbe essere il primo a dare un potere decisionale all’algoritmo. Negli Stati Uniti, gli algoritmi aiutano a raccomandare condanne penali in alcuni stati. Alcuni chatbot sono già in grado di fornire assistenza legale elementare e le macchine si stanno prendendo in carico già diverse attività ripetitive e di basso valore aggiunto, come la registrazione l’invio di documenti, liberando tempo prezioso dai lacci e lacciuoli della burocrazia.
L’idea di un giudice robot potrebbe funzionare in Estonia, anche perché i suoi 1,3 milioni di residenti utilizzano già una carta d’identità nazionale, sono abituati a un menu online di servizi come l’e-voting, il cassetto fiscale digitale e molti altri. Il terreno è fertile perché il grado digitalizzazione del piccolo paese è già elevato e le varie agenzia governative sono collaborative tra loro. Nel 2016 oltre due terzi degli estoni hanno compilato e depositato moduli governativi su Internet, quasi il doppio della media europea.
Il rovescio della medaglia è che un’intelligenza artificiale è buona solo quanto la programmazione che ne fa parte. Se da una parte è vero che una macchina può analizzare un’infinità di documenti legali, sentenze del passato, appelli, motivazioni, atti ufficiali e chi più ne ha più ne metta, se tali fonti contengono dei pregiudizi anche latenti, come quelli verso certe minoranze o tipologie di persone, o peggio ancora sono stati fatti veri e propri errori giudiziari, la debolezza del sistema impatterà su tutte le sentenze future.
Cosa dobbiamo quindi aspettarci? In prima battuta che casi come quello dell’Estonia si moltiplicheranno. Le Nazioni ovviamente arriveranno gradatamente ad affidare la decisione finale ad una macchina, quindi possiamo immaginare che gli algoritmi, all’inizio, saranno solo di supporto ai giudici ed alle corti o appunto, come nel caso estone, si occuperanno di casi di rilevanza abbastanza modesta e facilmente codificabile. L’intelligenza artificiale può lavorare a velocità incredibili, teoricamente potrebbe elaborare tutte le informazioni disponibili su un caso in minuti o ore, invece che settimane o mesi. In attesa che la realtà ci stupisca ancora più della fantasia, ed il percorso di questa tecnologia si dipani davanti ai nostri occhi o nelle nostre aule di tribunale, continuerò a monitorare l’evoluzione e riportarvi le principali novità.
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DNA PER ARCHIVIARE I DATI
Microsoft, il colosso del software americano, ha realizzato la prima “unità a DNA” per l’archiviazione dei dati; ha contribuito cioè a creare il primo dispositivo capace di codificare automaticamente informazioni digitali dentro il DNA e poi di nuovo in bit.
Microsoft ha costruito un dispositivo delle dimensioni di una fotocopiatrice che, a tendere, sarà in grado di sostituirsi ai data center memorizzando file, filmati e documenti in filamenti di DNA. Filamenti che possono contenere una quantità notevole di informazioni.
Il dispositivo è un dimostratore e non è la prima volta che sequenze di dati vengono inserite nel DNA, ma, finora, l’archiviazione dei dati è sempre stata effettuata a mano in laboratorio. Ora i ricercatori dell’Università di Washington che lavorano con il gigante del software, dicono di aver creato una macchina che converte i bit elettronici in DNA e viceversa sulla base di istruzioni di programmazione, senza una persona coinvolta.
Le informazioni vengono archiviate in molecole di DNA sintetiche create appositamente, non in DNA di esseri umani o altri esseri viventi e possono essere crittografate prima di essere inviate al sistema. Mentre macchine sofisticate come sintetizzatori e sequencer eseguono già parti chiave del processo, molti dei passaggi intermedi fino ad oggi, avevano richiesto il lavoro manuale del laboratorio di ricerca. Ma questo non sarebbe fattibile in un contesto commerciale. Non possiamo certo immaginare data center con scienziati dotati di pipetta, che eseguono operazioni a mano sui dati, se stiamo pensando ad una soluzione vendibile sul mercato di massa.
Il sistema automatizzato di archiviazione dei dati del DNA utilizza il software sviluppato dal team di Microsoft e dell’Università di Washington che converte gli uni e gli zeri dei dati digitali in adenina, timina, citosina e guanina, che sono gli elementi costitutivi del DNA. Quindi utilizza apparecchiature di laboratorio poco costose e ampiamente disponibili per trasferire i liquidi e le sostanze chimiche necessarie in un sintetizzatore che costruisce frammenti di DNA.
Quando il sistema ha bisogno di recuperare le informazioni, aggiunge altre sostanze chimiche per preparare adeguatamente il DNA e usa delle pompe microfluidiche, questo è il loro nome, per spingere i liquidi in altre parti del sistema che “leggono” le sequenze di DNA e le riconvertono in informazioni che un computer può capire.
La macchina, che è realizzata da componenti commerciali che valgono circa 10.000 dollari, utilizza quindi una combinazione di prodotti chimici per costruire filamenti di DNA e una piccola macchina di sequenziamento che serve a riestrarre i dati una volta che gli stessi sono stati codificati dentro il DNA stesso. Secondo una recente pubblicazione dello scorso 21 marzo apparsa sulla rivista Nature Scientific Reports, il team è stato in grado di archiviare e recuperare una sola parola – “ciao”, ovviamente in inglese “hello”, composta da cinque byte di dati.
Il processo finora ha richiesto 21 ore, principalmente a causa delle lente reazioni chimiche necessarie nella scrittura del DNA. Si tratta quindi di una soluzione ancora lentissima, dal momento che un sistema di archiviazione nel DNA commercialmente utile dovrà essere in grado di archiviare i dati milioni di volte più velocemente.
Perché si sta sperimentando tutto questo? Il DNA è una soluzione interessante perché può immagazzinare informazioni digitali in uno spazio di ordini di grandezza inferiori rispetto ai data center utilizzati oggi. È una soluzione promettente per archiviare la quantità esplosiva di dati che il mondo genera ogni giorno, dai registri aziendali, ai video, alle scansioni di informazioni mediche e persino alle immagini provenienti dallo spazio.
Microsoft sta esplorando i modi per colmare un divario incombente tra la quantità di dati che stiamo producendo, che devono essere archiviati, e la nostra capacità di memorizzarli. Ciò include lo sviluppo di algoritmi e tecnologie di calcolo molecolare per codificare e recuperare dati all’interno di DNA sintetico fabbricato ad-hoc. Per esempio, tutte le informazioni attualmente memorizzate in un data center delle dimensioni di un piccolo magazzino, potrebbero essere conservate in uno spazio grosso modo delle dimensioni di alcuni dadi da gioco.
Inoltre, nelle giuste condizioni, il DNA può durare molto più a lungo delle attuali tecnologie di archiviazione che degradano nel giro di pochi decenni. Alcuni DNA, come sappiamo, sono riusciti a resistere in condizioni di conservazione non esattamente ideali per decine di migliaia di anni, per esempio in zanne di mammut e nelle ossa dei primi umani. Quindi si presume per analogia che una tecnologia di storage basata sul DNA potrebbe consentire ai dati di essere conservati molto più a lungo di quanto accada oggi con le tecnologie attuali.
La cosa fantastica di questo sistema, infine, è che se volessimo sostituire una delle parti con qualcosa di nuovo o migliore o più veloce, potremmo semplicemente inserirla nel DNA e questo concetto dà molta flessibilità per il futuro. In altri termini quando e se la tecnologia migliorerà ancora, magari in modi oggi non del tutto prevedibili, il DNA come contenitore potrà ospitare o interfacciarsi con ulteriori tecnologie. Non è quindi rigido, come una memoria di massa, un CD o un DVD.
Il programma IARPA della National Intelligence Agency si sta preparando a distribuire decine di milioni di dollari verso nuovi e radicali schemi di archiviazione delle informazioni molecolari, quindi questo è anche un buon momento per le aziende coinvolte nello storage del DNA per mostrare le loro capacità, fra l’altro facendosi finanziare, a fondo perduto o con condizioni di rimborso agevolate.
Nelle prossime puntate, seguiremo quindi l’evoluzione di questa affascinante tecnologia.
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ROBOTIC FARMING
L’espressione “robotic farming” indica l’utilizzo della robotica in agricoltura. Robotica e automazione stanno gradualmente guadagnando terreno nel settore agricolo, il mercato dei cosiddetti “agribots” è in grande crescita. E’ stato valutato pari a 3,42 miliardi di dollari nel 2017 e si prevede che registrerà una crescita di oltre il 20% annuo nei prossimi anni. Le applicazioni più comuni dei robot in campo agricolo includono la raccolta di dati aerei, la mappatura dei terreni, la semina, la concimazione, l’irrigazione e la raccolta, senza contare le attività collegate come quelle casearie come la mungitura e la pastorizia. Secondo la Federazione Internazionale della Robotica, la maggior parte del mercato è rappresentato dalla Cina, la Corea, il Giappone, gli Stati Uniti e la Germania, che rappresentano il 74% della fornitura totale.
I robot stanno progressivamente sostituendo l’uomo. In tutto il mondo, gli agricoltori stanno invecchiando. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), i lavoratori agricoli in percentuale della forza lavoro sono diminuiti dall’81,0% al 48,2% nei paesi in via di sviluppo e dal 35,0% al 4,2% in quelli sviluppati. La carenza di persone che lavorano nelle fattorie è in crescita cronica ovunque. In Asia, in particolare nel solo Giappone, il numero di persone che lavorano nelle fattorie è passato da 2,2 milioni nel 2004 a 1,7 milioni nel 2014. Un calo così considerevole della forza lavoro di circa il 12,8% si osserva anche nel settore agricolo europeo. Tale calo di forza lavoro è causato della mancanza di giovani che diventano agricoltori, trovando il mestiere poco attraente e molto faticoso, e la mancanza di competenze incoraggia la diffusione delle tecnologie di automazione agricola. Quindi in parte l’automazione sta colmando il vuoto lasciato dalla mancanza di forze fresche che si dedicano ai campi, in parte è la causa stessa della diminuzione della forza lavoro, perché i robot sono più efficienti degli esseri umani.
Ma cosa sono in grado di fare davvero i robot? Virgo, un agribot della startup Root AI, è progettato per raccogliere i pomodori. Ha una fotocamera e un software di intelligenza artificiale che analizza se il pomodoro è maturo, e un braccio con delicate “dita” che si aprono e strappano il frutto direttamente dalla vite. Intelligenza artificiale per i pomodori? Avete capito bene, la telecamera che guida la pinza ha un chip di elaborazione video e un software di intelligenza artificiale che è stato addestrato grazie a milioni di immagini di pomodori maturi e acerbi. La macchina è stata testata in una serra in California e funziona benissimo.
A Devens, una cittadina del Massachusetts, la serra automatizzata di Little Leaf Farms produce verdure e insalate che non vengono quasi mai toccate dalle mani dell’uomo. Praticamente l’intera serra è un robot. Il suo processo idroponico utilizza l’acqua piovana raccolta dal tetto della serra e lo zapping con luce ultravioletta per uccidere tutti i batteri. Ci vogliono circa tre settimane perché i vegetali raggiungano la maturità e, quando questo accade, una macchina li raccoglie e li impacchetta automaticamente, per poi spedirli a tutti i supermercati della regione. Questa per esempio è una soluzione che consente la coltivazione anche a due passi dalla città, con la conseguente riduzione dei costi di trasporto e dell’inquinamento inevitabilmente generato dal trasporto.
La Vision Robotics, invece, una società con sede a San Diego, sta sviluppando robot che eseguiranno il “diradamento”, un processo che garantisce che i semi siano sufficientemente distanziati durante la semina, consentendo alle colture di crescere più velocemente.
I robot sono anche destinati ad aiutare gli agricoltori prevenendo alcuni dei $ 43 miliardi di perdite create da erbacce resistenti agli erbicidi. La Blue River Technology sta già vendendo il suo robot See & Spray, commercializzato come un’efficace irroratrice.
I raccoglitori avanzati, anche se non ufficialmente robot, stanno aiutando gli agricoltori a ottenere enormi risparmi. Ad esempio, un nuovo veicolo per la vendemmia realizzato dalla ditta francese Pellenc può raccogliere da 15 a 20 tonnellate di uva all’ora, equivalenti a un carico di lavoro effettuato da 30 raccoglitori umani. Il raccoglitore rimuove anche la maggior parte delle foglie dell’uva, assicurando che gli agricoltori ottengano frutta pulita.
Si potrebbe praticamente continuare all’infinito. Ma non si tratta solo di eseguire attività manuali che le macchine possono fare meglio dell’uomo, si tratta anche di raccogliere dati, per far letteralmente esplodere il potenziale dato dalla combinazione tra software e macchina, che può portare ad un aumento sostanziale dei raccolti.
Ad esempio, il robot TerraSentia sviluppato da EarthSense può muoversi autonomamente attraverso i campi e misurare i vari parametri del terreno utilizzando sensori avanzati, riportando informazioni in real-time agli operatori umani mentre analizza le colture. Inoltre, nella sua versione più evoluta sarà in grado di rilevare le comuni malattie delle piante. Questi dati saranno preziosi per gli scienziati, poiché sapranno quali ambienti e condizioni producono le migliori piante. I robot TerraSentia potrebbero, ad esempio, entrare in un campo, analizzare le piante e informare gli scienziati su quali piante sono le più forti e più sane.
Insomma, in un mondo con popolazione crescente, che avrà sempre più fame, i robot e l’automazione garantiranno la possibilità di migliorare la resa dei terreni esistenti e apriranno la strada all’utilizzo di colture che potrebbero avere anche caratteristiche molto diverse dalle attuali. Se avete una visione ancora romantica del contadino che lavora la terra svolgendo manualmente azioni ripetitive seguendo la cadenza immutabile del tempo e delle stagioni, questa immagine è destinata a venir meno nei prossimi anni.
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