
News dal futuro – cattura della CO2, arca di Noè lunare, microbi immortali, biostampa di organi, sabbia dei miracoli
In questa puntata, vi porto dal fondo degli oceani fino alla luna, promesso, con storie che forse sono tra le più belle mai raccontate a The Future Of:
- Uno. La cattura della CO2. Come funziona, quanto cosa e cosa spera di ottenere chi sostiene la rimozione attiva dell’anidride carbonica dall’aria.
- Due. Arca di Noè lunare. Uno scienziato americano progetta una base sulla luna, per conservare le tracce degli esseri viventi terrestri, in caso di distruzione del pianeta.
- Tre. Microbi immortali. Un team di scienziati giapponesi trivella il fondo del mare e scopre batteri che hanno 100 milioni di anni. E non è l’unica sorpresa: sono vivi.
- Quattro. Biostampa di organi. Dall’Università di Buffalo arriva una tecnologia che stampa organi in pochi minuti. A che punto siamo con la biostampa in 3D?
- Cinque. La sabbia dei miracoli. Lo sapevate che stiamo “finendo” la sabbia? Vi racconterò come questa non sia una battuta, ma un tema ambientale molto sottovalutato.
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LA CATTURA DELLA CO2
La cattura dell’anidride carbonica dall’aria, viene considerata una delle possibile strategie per ridurne la concentrazione ed aiutare l’umanità nella lotta al cambiamento climatico.
Per altri è semplicemente un approccio sbagliato, perché sostengono che la vera battaglia non consista nel ridurre direttamente l’eccesso di CO2 già presente nell’aria, bensì nell’evitare di produrne altra. Anzi, se avessimo delle tecnologie per fare tutto questo, diventerebbero un alibi in grado di rallentare l’adozione di comportamenti virtuosi.
Ma cosa intendiamo quando parliamo di cattura dell’anidride carbonica dall’aria? Come funziona? Quanto costa? E’ vero che nel 2050 il pianeta terra sarà punteggiato di mega-stabilimenti sparsi ognidove, destinati proprio a questo scopo?
Si chiamano impianti di cattura diretta dell’aria (meglio noti come DAC), ed a guardarli sembrano dei giganteschi condizionatori d’aria, di proporzioni incredibili. Ed in un certo senso, è esattamente così. Quello che fanno è cercare di raffreddare il pianeta succhiando l’anidride carbonica dall’aria.
Si sono andati ad affiancare ad altre strategie passive, già in uso, ma decisamente meno efficienti. Oggi, la maggior parte della cattura del carbonio, per esempio, si concentra sulla limitazione delle emissioni alla fonte: scrubber e filtri sulle ciminiere che impediscono ai gas nocivi di raggiungere l’atmosfera.
Ovviamente se avete una ciminiera ha un senso, ma se pensate alla vostra auto ed ai miliardi di auto in circolazione, questa soluzione è costosa e poco praticabile. Senza contare che tale approccio non può affrontare il tema della CO2 che è già nell’aria.
Ed è qui che entra in gioco la cattura diretta dell’aria. Tecnicamente parlando il sistema funziona in modo semplice e pulito.
Il sistema usa dei ventilatori per far passare l’aria contenente lo 0,04% di CO2 (i livelli atmosferici attuali) attraverso un filtro inzuppato in una soluzione di idrossido di potassio – una sostanza chimica caustica comunemente conosciuta come potassa, usata nella fabbricazione del sapone e in varie altre applicazioni. La potassa assorbe la CO2 dall’aria, dopodiché il liquido viene convogliato in una seconda camera e mescolato con idrossido di calcio (calce da costruzione). La calce si impadronisce della CO2 disciolta, producendo piccole scaglie di calcare. Questi fiocchi di calcare vengono poi setacciati e riscaldati in una terza camera, chiamata calcinatore, fino a decomporsi, sprigionando CO2 pura, che viene catturata e immagazzinata.
La cosa buona è che in ogni fase, i residui chimici avanzati vengono riciclati di nuovo nel processo, formando una reazione chiusa, che si ripete all’infinito senza materiali di scarto.
Ma quanti impianti così servirebbero per avere un impatto? La scala della sfida per la rimozione del carbonio usando tecnologie come i DAC, piuttosto che le piante, è impegnativa. Uno studio autorevole calcola che per tenere il passo con le emissioni globali di CO2, che attualmente ammontano a 36 gigatonnellate all’anno, significherebbe costruire circa 30.000 impianti DAC su larga scala. Per dare un’idea più precisa di questo numero, vorrebbe dire più di tre per ogni centrale a carbone in funzione oggi nel mondo.
Ed inoltre, visto che ogni impianto costerebbe circa 500 milioni di dollari servirebbero 15 trilioni di dollari. Senza contare che se avessimo impianti DAC abbastanza grandi da catturare 10 gigatonnellate di CO2 ogni anno, cioè meno di un terzo dell’obiettivo, servirebbero quattro milioni di tonnellate di idrossido di potassio, cioè una volta e mezza l’intera fornitura globale annuale di questa sostanza chimica.
Ma forse il vero problema è che non esiste ancora un mercato consistente per l’anidride carbonica che viene catturata. La cattura diretta dell’aria produce un bene prezioso: migliaia di tonnellate di CO2 compressa. E’ anche vero che questa può essere combinata con l’idrogeno per fare un carburante sintetico, a zero emissioni. Ma è un altro processo e nuovi costi. Così come ha un costo interrare tale CO2 sottoterra.
E dove ci sono più costi che guadagni, si sa che l’uomo non è particolarmente veloce ad agire!
ARCA DI NOE’ LUNARE
Il ricercatore dell’Università dell’Arizona, Jekan Thanga, ha preso ispirazione dal racconto biblico dell’Arca di Noè, per ipotizzare una soluzione high-tech, in grado di preservare il futuro di tutte le specie viventi. Invece dei classici due animali per ciascuna specie, la sua arca a energia solare, sulla luna, conserverebbe campioni di semi, spore, sperma e uova, congelati criogenicamente da 6,7 milioni di specie terrestri.
Il progetto, molto seriamente, è andato ad alimentare un paper della Aerospace Conference, ed il concetto è stato ribattezzato dal suo autore come una “moderna polizza assicurativa globale”.
Quotando proprio le sue parole, Thanga ha detto: “come esseri umani, abbiamo avuto un incontro ravvicinato con la catastrofe circa 75.000 anni fa, con l’eruzione del supervulcano Toba, che ha causato un periodo di raffreddamento della temperatura di 1.000 anni e, secondo alcuni, ha causato un calo stimato della diversità umana. Poiché la civiltà umana ha un impatto così grande, se dovesse collassare, ciò potrebbe avere un effetto a cascata negativo sul resto del pianeta”.
Premesso che la sparizione dell’uomo non è detto che avrebbe effetti poi così negativi sul pianeta, il tema qui è che la vita non è rappresentata solo dall’uomo, ma anche da milioni di altri esseri animali e vegetali, che ogni giorno solcano la Terra.
I più informati, avranno pensato immediatamente alla Banca del Genoma che si trova a Svalbard, in Norvegia, e che l’uomo sta alimentando anno dopo anno tra i freddi ghiacci del Nord. Il problema è che, se il livello del mare continua a salire, molti luoghi asciutti andranno sott’acqua, compresa Svalbard e la struttura che contiene centinaia di migliaia di campioni di semi, conservati lì per proteggerci dalla perdita accidentale della biodiversità.
Il team di Thanga crede che conservare i campioni su un altro corpo celeste riduca il rischio di perdere la biodiversità, se un evento dovesse causare l’annientamento totale della Terra. Insomma, in linea teorica, il ragionamento non fa una grinza.
Ma gli scienziati non si sono limitati al concept. L’idea è quella di sfruttare i canali di lava sotterranei scoperti nel 2013. Questa rete di tubi di lava lunare ha un diametro di circa 100 metri. Inalterati da circa 3 miliardi di anni, potrebbero fornire un riparo dalle radiazioni solari, dai micrometeoriti e dai cambiamenti di temperatura della superficie.
Tali strutture vengono considerata come luoghi potenziali per ospitare vere e proprie basi lunari umane, come vi ho già raccontato in passato a The Future Of. Ma se per l’uomo tutto è complicato dall’assenza di acqua e dalla difficoltà di produrre ossigeno respirabile, al contrario lo storage criogenico di semi, spore e sperma risulterebbe più facile, ma solo in teoria.
Ovviamente passando dalla teoria alla pratica, le cose si complicano. Per essere crioconservati, i semi devono essere raffreddati a meno 180 gradi e le cellule staminali tenute a meno 196 gradi. Il fatto che i tubi di lava siano così freddi, e i campioni debbano essere ancora più freddi, significa che c’è il rischio che le parti metalliche della base possano congelarsi.
Ma Thanga non si è arreso, ed ha progettato una soluzione innovativa. Cioè l’utilizzo di un materiale superconduttore crio-raffreddato, cioè un materiale che trasferisce energia senza perdere calore, al contrario di quello che farebbe un cavo o un materiale tradizionale.
Tale materiale galleggerebbe sopra un potente magnete, con le due parti bloccate insieme ad una distanza fissa.
Grazie a questo fenomeno gli scaffali dei campioni potrebbero galleggiare sopra le superfici metalliche e la temperatura essere perfettamente mantenuta al livello desiderato.
E poi servirebbe portare i campioni sulla luna. Costruire un’arca lunare non è un’impresa da poco, ma, basandosi sui calcoli, Thanga ha detto che non è così impossibile come potrebbe sembrare. Il trasporto di circa 50 campioni di ciascuna delle 6,7 milioni di specie richiederebbe circa 250 lanci di razzi. Tenete conto che ci sono voluti 40 lanci di razzi per costruire la Stazione Spaziale Internazionale. Quindi complesso si, ma impossibile no.
Insomma, staremo a vedere se è solo uno dei grandi progetti che restano su carta o si riuscirà davvero a passare alla fase operativa. Per adesso, mi vien solo da pensare che questo è l’ennesimo segno del fatto che ci apprestiamo a diventare una civiltà spaziale, anche se magari, in maniera un po’ diversa dalla classica colonizzazione di pianeti lontani da parte dell’uomo.
MICROBI IMMORTALI
Nel 2010, gli scienziati giapponesi dell’Integrated Ocean Drilling Program’s Expedition, si sono recati nel South Pacific Gyre con una trivella gigante.
Il Gyre, è un luogo decisamente particolare, è un deserto marino che viene considerato più arido di tutti i luoghi più aridi della Terra. Sembra uno scherzo, ma non lo è. Ovviamente non è arido per la mancanza di acqua, bensì per la mancanza di vita.
Le correnti oceaniche gli girano intorno, ma all’interno dell’area l’acqua è ferma, e la vita lotta perché entrano pochi nutrienti. Vicino al centro si trovano sia il Polo Oceanico dell’Inaccessibilità (reso famoso dal famoso scrittore Lovecraft come la casa di Cthulhu), sia l’altrettanto famosa isola di spazzatura del Sud Pacifico.
Il mare qui è così avaro che ci vuole un milione di anni perché un metro di “neve” marina, fatta di sedimenti di corpi e polvere, si accumuli sul fondo. In altri termini: è la zona d’acqua meno produttiva del pianeta.
Cosa sono andati a fare gli scienziati in questo luogo così inospitale? Hanno calato una trivella a 6.000 metri di profondità, ed estratto sedimenti che rappresentano la bellezza di 100 milioni di anni di storia della Terra.
Quello che il team voleva sapere era per quanto tempo, e in quale stato, i microbi intrappolati nel carotaggio, potevano sopravvivere in questa sorta di frigorifero oceanico, visto che erano stati protetti dalle radiazioni e dai raggi cosmici.
E quello che hanno scoperto è incredibile. Primo, hanno realizzato che i sedimenti contenevano cellule batteriche, scoperta notevole, ma fin qui abbastanza in linea con le aspettative. Quello che non si aspettavano, è che quando è stato dato loro del cibo, la maggior parte dei batteri si è rapidamente rianimata ed ha cominciato a moltiplicarsi.
In questo esperimento, si sono risvegliate e moltiplicate cellule che si erano depositate sul fondo dell’oceano quando i dinosauri camminavano sul pianeta. Hanno resistito per quattro periodi geologici e quando è stato offerto loro del nutrimento, si sono svegliati ed hanno ricominciato a vivere, come se non fosse successo niente di strano.
Considerate che il 70% della superficie terrestre è coperto da sedimenti marini, i cui residenti microbici rappresentano da qualche parte tra un decimo e la metà di tutta la biomassa microbica sulla Terra. In parole povere, ci sono un sacco di microbi laggiù che si comportano come degli highlander.
Infatti, come questi microbi fotosintetici siano riusciti a riprodursi al buio dopo 13 milioni di anni sotto il fondo del mare, rimane un mistero che la scienza ora si propone di svelare.
Possiamo dire che siamo letteralmente seduti sopra a un pianeta pieno di fossili viventi che sono contemporaneamente sia fossili che vivi. Con implicazioni che, di conseguenza, non ci sono neanche tanto chiare. Gli uomini vivono e muoiono, i dinosauri si estinguono, le piante ed altri viventi sono destinati a diventare fossili da museo, ma c’è qualcosa che apparentemente non muore mai. Con buona pace, anche di chi vuole costruire arche di Noè supertecnologiche sotto la superficie lunare.
BIOSTAMPA DI ORGANI
Sembra fantascienza. Una macchina si immerge in una bacinella poco profonda, contenente gelatina gialla traslucida e tira fuori quella che diventa una mano, a grandezza naturale. Il tutto in appena 19 minuti.
La mano, che richiederebbe sei ore per essere prodotta utilizzando metodi convenzionali di stampa 3D, dimostra ciò che gli ingegneri dell’Università di Buffalo stanno realizzando. Cioè, il progresso verso organi e tessuti umani stampati in 3D. Biotecnologia che potrebbe eventualmente salvare innumerevoli vite perse a causa della carenza di organi di donatori. Pensate che nei soli Stati Uniti, la lista delle persone in attesa di organi si allunga di un nuovo nominativo ogni 9 minuti.
E la cosa più pionieristica di questa tecnologia, forse non è neanche tanto la velocità, quando la possibilità di stampare intere reti vascolari all’interno dell’organo. Perché un organo, chiaramente non è solo un involucro o un guscio esterno, ma qualcosa che si deve raccordare al resto del corpo ed ha un contenuto. I ricercatori, infatti, hanno anche stampato in 3D un modello di fegato umano che include una rete vascolare.
https://www.acsu.buffalo.edu/~chizhou/liver.mp4
In linea di principio, il sistema sviluppato negli USA, si concentra su un metodo di stampa 3D chiamato stereolitografia e su materiali gelatinosi noti come idrogel, che sono usati per creare, tra le altre cose, pannolini, lenti a contatto e impalcature nell’ingegneria dei tessuti. Una soluzione che quindi combina tecnologie già usate in altri ambiti, che permette la stampa rapida di modelli di idrogel di dimensioni abbastanza rilevanti, molti centimetri per intendersi. Riduce significativamente la deformazione delle parti e le lesioni cellulari causate dall’esposizione prolungata agli stress ambientali che si vedono comunemente nei metodi convenzionali di stampa 3D.
Del resto, se state pensando di entrare in un ospedale, farvi stampare un organo ed impiantarlo, come se nulla fosse, nonostante i progressi, la realtà è lontana da questa immagine ottimistica. Qual’è quindi lo stato dell’arte?
Il bioprinting tridimensionale è una tecnologia all’avanguardia che serve per creare tessuti viventi, come vasi sanguigni, ossa, cuore o pelle, attraverso la produzione additiva della stampa 3D. La stampa 3D tradizionale implica la produzione di oggetti solidi tridimensionali da un file digitale, utilizzando un processo di stratificazione. Nella sua versione più comune, un materiale di partenza, come la plastica, viene liquefatto, e poi la macchina aggiunge strato dopo strato sulla piattaforma, fino ad avere un oggetto completamente formato.
Passare da una plastica ad un idrogel a tessuti viventi, come potete immaginare, non è per nulla banale. Se mettere strati di cellule viventi uno sopra l’altro, è un risultato che la scienza ha ottenuto da oltre vent’annI, non è sufficiente avere le cellule, perché queste hanno bisogno di un ambiente nutritivo per rimanere in vita: cibo, acqua e ossigeno.
I gel sono già un deciso passo avanti, visto che si tratta di gelatina arricchita con vitamine, proteine e altri composti vitali. Ma un’intera operazione di creazione di un organo vivente da zero, è ancora un obiettivo di notevole complessità, e serviranno molti anni ancora di ricerca e sviluppo.
Intanto, però, ci possiamo aspettare qualcosa di molto interessante in tempi più brevi: gli organi stampati in 3D serviranno per testare nuovi prodotti cosmetici, chimici e farmaceutici, evitando di farlo sugli animali. In attesa di salvare vite umane, possiamo iniziare a ridurre la sofferenza degli animali, ed è già una cosa positiva.
LA SABBIA DEI MIRACOLI
Lo sapete qual è il secondo “materiale” più usato dall’uomo dopo l’acqua? Se vi avessi fatto questa domanda a freddo, dubito che la maggior parte di noi sarebbe stata in grado di rispondere. E confesso, nemmeno io. Ovviamente dopo aver ascoltato il titolo, avete capito che si tratta della sabbia.
La sabbia è la sostanza principale utilizzata nella costruzione di strade, ponti, treni ad alta velocità e persino progetti di rigenerazione del territorio. Sabbia, ghiaia e roccia frantumate insieme, vengono fuse per fare il vetro usato in ogni finestra, schermo di computer e smartphone. Anche la produzione di chip di silicio usa la sabbia.
Praticamente potremmo dire di essere una società costruita sulla sabbia. Che incredibilmente scarseggia. Il mondo sta affrontando una carenza di sabbia e gli scienziati del clima dicono che costituisce una delle più grandi sfide di sostenibilità del 21° secolo.
Ma come? Ma non ci hanno raccontato che i deserti avanzano e che la desertificazione di grandi aree del mondo è un problema sostanziale? Ed ora invece mancherebbe la sabbia?
L’ONU stima che ogni anno vengono prodotte 4,1 miliardi di tonnellate di cemento, spinte principalmente dalla Cina, che costituisce il 58% dell’attuale boom edilizio alimentato dalla sabbia. Si è scoperto che l’uso globale di sabbia e ghiaia è 10 volte superiore a quello del cemento. Questo significa che, solo per l’edilizia, il mondo consuma tra 40 e 50 miliardi di tonnellate di sabbia all’anno. Un volume sufficiente a costruire un muro di 27 metri di altezza per 27 metri di larghezza che avvolge l’intero pianeta ogni anno. Un’immagine mostruosa, che però rende bene l’idea.
Il tasso globale di utilizzo della sabbia, è triplicato negli ultimi due decenni, in parte a causa dell’aumento dell’urbanizzazione, ed oggi supera di gran lunga il tasso naturale al quale la sabbia viene reintegrata, dall’erosione delle rocce da parte del vento e dell’acqua.
E qui, ironia della sorte, sta l’inutilità della sabbia del deserto. I granelli di sabbia del deserto, erosi dal vento piuttosto che dall’acqua, sono troppo lisci e arrotondati per legarsi insieme a fini di costruzione.
In più, come se non bastasse, vari Paesi stanno cominciando ad imporre restrizioni al prelievo di sabbia da coste, fiumi e laghi per prevenire l’erosione e salvaguardare il paesaggio.
E quindi? come se ne esce? Il Geneva’s Global Sand Observatory Initiative, ha identificato alcune priorità per la governance delle risorse di sabbia nei prossimi due anni:
- cooperazione sulla definizione degli standard globali di utilizzo della risorsa sabbia, in tutti i settori;
- ricerca di alternative convenienti e praticabili alla sabbia fluviale e marina;
- aggiornamento dei quadri ambientali, sociali e di governance aziendale nel settore finanziario per includere la sabbia;
- stabilire obiettivi regionali, nazionali e globali sull’uso della sabbia nella giusta scala.
L’ennesima sfida gestionale e ambientale, alla quale probabilmente non stavate pensando e che, invece, ha una rilevanza di portata globale.
SALUTI
Grazie per aver ascoltato The Future Of, davvero! Avresti potuto ascoltare la radio, avresti potuto far girare un vinile, avresti potuto mettere su una cassetta, avresti potuto usare uno stereotto, ehm, a sapere cosa fosse, e invece hai preferito The Future Of. E’ per questo che ti ringrazio, ed hai ancora centinaia di puntate da scoprire.
La frase della settimana. Winston Churchill ha scritto “Più a lungo si guarda indietro, più lontano si può guardare in avanti.”
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