
News dal futuro – elettricità dal corpo, controller del futuro, riciclo virtuoso, rifiuti elettronici, repairability index
In questa puntata, cinque spunti sul futuro di grande interesse:
- Uno. Elettricità del corpo. Un gruppo di scienziati americani realizza un piccolo device in grado di trasformare il calore del corpo in energia elettrica.
- Due. Controller del futuro. Sony deposita un brevetto per utilizzare oggetti di uso comune come controller della Playstation. In futuro giocheremo con una banana.
- Tre. Riciclo virtuoso. Due storie che arrivano da Inghilterra e Spagna e ci insegnano a recuperare cose inutili, che si trovano davanti ai nostri occhi, e possono diventare incredibilmente preziose.
- Quattro. Rifiuti elettronici. Ovvero come l’Unione Europea pensa di affrontare il problema delle 51.000 tonnellate di carica batterie degli smartphone buttati via ogni anno.
- Cinque. Il Repairability Index. L’iniziativa francese per aiutare i consumatori a scegliere la tecnologia, in base alla sua capacità di essere riparata e durare nel tempo.
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ELETTRICITÀ’ DAL CORPO
Il movimento ed il calore sono due delle “tecnologie” che ci ha dato madre natura, all’interno delle quali si nasconde la possibilità di generare energia. Se state pensando a turbine, centrali idriche o altre cose abbastanza sofisticate, la cover story di questa settimana ci parla di qualcosa molto più vicino a noi. Anzi il soggetto siamo proprio noi esseri umani.
Una nuova minuscola invenzione potrebbe trasformare il nostro corpo in una batteria, il che significa che pacemaker, pompe per la somministrazione di farmaci ed altri dispositivi medici impiantabili potrebbero funzionare con un nuovo tipo di energia rinnovabile: tu.
Il wearable, chiamato generatore termoelettrico (TEG), trasforma direttamente il calore del corpo in energia elettrica. Gli scienziati dell’Università del Colorado hanno testato il loro TEG sotto forma di un piccolo anello, ma di fatto, il piccolo generatore potrebbe raggiungere le dimensioni di un orologio o essere anche più grande, a seconda di quanta potenza si vuole generare.
La logica è relativamente semplice. Bisogna pensare al processo di conduzione naturale del nostro corpo. Per mantenere una temperatura costante di circa 37 gradi, il corpo deve regolare l’equilibrio tra guadagno e perdita di calore. E poiché il nostro corpo non è così efficiente, perde proprio attraverso il calore, circa il 75% dell’energia che produce.
GENERATORI TERMOELETTRICI
I generatori termoelettrici utilizzano una differenza di temperatura, come quella tra il nostro corpo e l’ambiente circostante, per trasformare la perdita di calore in elettricità. Per stabilire l’equilibrio, il calore si disperde automaticamente in luoghi più freddi, e i TEG possono catturare queste particelle energizzate mentre passano attraverso una barriera micro-sottile.
Quindi, basta indossare il wearable e un circuito flessibile e malleabile all’interno del dispositivo converte il calore del corpo in elettricità. Nel frattempo, un materiale speciale incorporato all’interno del gadget si riconfigura in maniera dinamica per tenerlo a contatto con la pelle ed evitare che si rompa a causa dei movimenti naturali del corpo.
Non pensate a performance eclatanti. L’anello realizzato e testato genera appena un volt di energia per ogni centimetro quadrato di pelle, che è molto meno di quello che serve alla maggior parte delle batterie esistenti. Però grazie alla modularità in stile LEGO dei dispositivi, i ricercatori potrebbero espandere gli anelli a braccialetti sportivi tipo Fitbit, orologi o anche cerotti molto più grandi. Le nuove forme avrebbero più potenza, e riuscirebbero a caricare dispositivi con requisiti elettrici più elevati.
Non a caso gli scienziati hanno pensato a prime applicazioni per dispositivi medici e non per il vostro nuovissimo smartphone. Per quello c’è tempo. L’anello, per ora non ha certo un look paragonabile ad un bel Bulgari o un Tiffany e non ti fa certo pensare che un diamante è per sempre. Ma l’idea che una certa quantità di elettricità possa essere prodotta dal corpo, senza passare dalla solita chimica, l’estrazione di metalli rari ed altri processi poco sostenibili, ovviamente non può fare che piacere. Se come hanno detto i ricercatori, questa applicazione potrà arrivare davvero sul mercato in 5 o 10 anni al massimo, saremo sicuramente felici.
CONTROLLER DEL FUTURO
I brevetti dell’industria dei giochi sono un interessante mix di idee futuristiche, applicazioni pratiche o sciocchezze totali. Possono darci un’idea di cosa sta progettando un’azienda per il futuro, fare luce su come i big player stanno rivisitando certe parti del loro business, o essere semplicemente letti come segnali deboli di futuro.
Ecco perché vi invito a prendere seriamente il fatto che Sony Interactive Entertainment ha depositato una domanda di brevetto per utilizzare una banana come controller della PlayStation. Si, avete capito bene, sto parlando proprio di una banana, del frutto, non di un oggetto super tecnologico che ha la forma di una banana o di un un boomerang.
Cominciamo dal capire che nel mercato esiste un problema piuttosto concreto. I controller hanno fin troppa troppa tecnologia al loro interno al giorno d’oggi. Connessioni wireless, stick analogici, pulsanti frontali e posteriori, touch pad, microfoni, altoparlanti, feedback aptico e chi più ne ha più ne metta. Alla fine, le periferiche moderne sono spesso complicate, costose ed una seccatura da tenere in carica, perché più funzioni hanno e più velocemente si scaricano.
Il brevetto di Sony recita con disarmante semplicità “”sarebbe auspicabile che un utente potesse utilizzare un dispositivo poco costoso, semplice e non elettronico come periferica per videogiochi“. E qui veniamo alla banana, in senso proprio ed anche in senso lato. Ciò che la domanda di brevetto descrive è un metodo che funziona con qualsiasi “oggetto passivo non luminoso tenuto in mano da un utente“. Potrebbe essere una tazza, una penna, un bicchiere, o come negli esempi preferiti dagli inventori, banane e arance.
LAVORA LA TELECAMERA
Una telecamera ottiene le immagini degli oggetti nelle mani degli utenti e li ricostruisce digitalmente in base a pixel, contorni e colori. Il gioco verrebbe addestrato a riconoscere gli oggetti come controller, o preconfigurato in modo che agli utenti venga detto in anticipo cosa possa essere usato come controller.
Il documento, poi, approfondisce i modi per dedurre il movimento della banana nello spazio 3D. Tecnologia che verrebbe usata per controllare la telecamera nel gioco, sostituire il controller fisico, o mettere in pausa la partita se la banana venisse posata a terra o uscisse dall’inquadratura della telecamera.
Ed i pulsanti? La domanda di brevetto propone la mappatura di pulsanti virtuali sulla banana, eventualmente con l’aiuto di una telecamera montata su un visore di realtà virtuale. Su questo tema sono stati fatti anche altri pensieri, come far riconoscere alla cam del gioco il movimento delle dita, oppure usare dei guanti speciali o dei sensori da montare solo sui polpastrelli.
Insomma, la ricerca è aperta, frizzante e comunque ancora nelle fasi di studio iniziale. Ci vorrà ancora un bel po’ di tempo per vedere l’applicazione all’opera, ma se ci sta lavorando un gigante come Sony, evidentemente non è solo per il gusto di cercare qualche nuova soluzione bizzarra ed esotica.
Del resto, per gli studiosi di futuro come me, è noto che uno dei megatrend in corso è quello della “personalizzazione” e questa tecnologia va esattamente in questa direzione. Quindi, se ai Giochi Olimpici di Parigi del 2024, il campione di League of Legends si presentasse con una banana, un vasetto di Nutella o una tavoletta di cioccolato in mano, io vi avevo avvisato. Non si tratta di essere golosi.
RICICLO VIRTUOSO
Questa settimana l’intraprendenza di alcuni imprenditori ci regala due storie di riciclo virtuoso, che sono pur sempre una goccia d’acqua nell’oceano, ma comunque vanno prese come segnali positivi nella lunga battaglia nella riduzione delle emissioni.
La prima storia arriva dall’Inghilterra. Gomi, un’azienda britannica che produce caricatori sostenibili e altri dispositivi, ha lanciato una linea di altoparlanti Bluetooth portatili costruiti con batterie dismesse provenienti dalle biciclette elettriche Lime. Come parte di una partnership con Lime stessa, Gomi userà 50.000 batterie provenienti da 1.000 vecchie e-bike per costruire degli speaker, con un durata della batteria di circa 20 ore.
Le batterie esauste vengono pulite e testate prima di essere installate nelle casse. Le celle vengono considerate non più utilizzabili ai fini di una e-bike dopo un certo numero di cicli di ricarica, ma sono ancora perfette per dispositivi elettronici personali, meno esigenti in termini di performance. E nel caso di Gomi, la promessa è che siano più che sufficienti per fornire una buona qualità audio e per lungo tempo, visto che 20 ore sono più che sufficienti sia per l’uso indoor che quello outdoor.
La seconda storia, invece, arriva dalla Spagna. Dovete sapere che in primavera, l’aria di Siviglia è addolcita dal profumo di azahar, i fiori d’arancio: ma la parte romantica della nostra storia finisce qui. I 5,7 milioni di chili di frutti amari che i 48.000 alberi della città depositano sulle strade in inverno, al contrario, sono un pericolo per i pedoni ed vero e proprio mal di testa per il dipartimento di pulizia della città.
ELETTRICITA’ DALLE ARANCE
Per risolvere questo problema, è stato lanciato un progetto per produrre un tipo completamente diverso di succo dalle arance indesiderate: l’elettricità. La città spagnola ha infatti iniziato un progetto pilota per utilizzare il metano prodotto dalla fermentazione della frutta per generare elettricità.
L’azienda idrica municipale, utilizzerà 35 tonnellate di frutta per generare energia pulita per far funzionare uno degli impianti di depurazione dell’acqua della città. Le arance andranno in un impianto esistente che già genera elettricità da materia organica. Mentre le arance fermentano, il metano catturato sarà usato per azionare il depuratore.
I test hanno dimostrato che 1.000 kg di arance produrranno 50 kWh, abbastanza per fornire elettricità a cinque case per un giorno, e si stima che se tutte le arance della città fossero riciclate e l’energia rimessa nella rete, potrebbero essere alimentate ben 73.000 case. Insomma non poco.
Per quanto riguarda le altre circa 15.000 tonnellate di arance commestibili che la regione produce ogni, si continuerà invece ad esportarle in Gran Bretagna, dove vengono trasformate in marmellata, oppure utilizzate come ingrediente chiave del Cointreau e del Grand Marnier.
Insomma, anche se questi sono piccoli casi, l’esempio che danno è importante per capire che spesso, le soluzioni intelligenti sono letteralmente davanti ai nostri occhi.
RIFIUTI ELETTRONICI
L’Unione Europea ha reso noto che i caricabatterie dismessi sono responsabili ogni anno di più di 51.000 tonnellate di rifiuti elettronici. Un numero enorme, ma del resto dobbiamo pensare che nel solo 2020 in Europa sono stati venduti oltre 195 milioni di smartphone. E secondo un sondaggio pubblicato qualche giorno fa da Wiko, risulta che tre utenti su quattro cambiano il proprio smartphone dopo appena tre anni.
Per ridurre questi volumi, ed anche per consentire agli utenti una maggiore facilità di ricarica, l’Unione Europa sta spingendo verso nuove norme per imporre un caricabatterie universale obbligatorio. Non è la prima volta che sentiamo l’UE chiedere un tale cambiamento. Già nel 2009 la Commissione europea aveva chiesto sistemi di ricarica armonizzati. E il 2014 ha visto il Parlamento europeo creare una nuova direttiva per l’uso del caricabatterie singolo.
Risultato delle precedenti iniziative? Dieci anni fa in Europa avevamo circa 30 tipi di sistemi di ricarica diversi, che oggi si sono ridotti a tre. Quindi, lato consumatore, tutto sommato un certo beneficio lo abbiamo ottenuto, lato rifiuti invece la cosa non sembra granchè migliorata. Del resto se aumenta il numero di dispositivi in circolazione, e la loro vita media è più breve, di sicuro abbiamo un problema di sostenibilità ambientale piuttosto rilevante. Caricabatterie o non caricabatterie.
APPLE NON CI STA
Ed infatti la risposta di Apple, per esempio, non si è fatta attendere. Apple ha risposto all’appello dell’UE già un anno fa, affermando che se il regolamento entrasse in vigore, ci sarebbero ancora enormi quantità di rifiuti elettronici. Dato che tutti coloro che hanno uno smartphone dovrebbero comprare il nuovo caricabatterie universale, dovrebbero disfarsi di quelli vecchi.
Quasi 1 miliardo di consumatori, per esempio, utilizza attualmente la “porta lightning” di Apple, quella con il connettore ad 8 pin per intenderci. Se tutti gli utenti fossero forzati a sostituire un miliardo di caricabatterie in un breve lasso di tempo, il settore dei rifiuti elettronici andrebbe ovviamente in affanno, facendo ottenere alla direttiva europea il risultato opposto a quello desiderato.
Ma non fatevi ingannare, l’obiezione di Apple sembra pretestuosa per almeno due motivi. Primo, nessuno chiederà ai consumatori di cambiare caricabatterie. Per quelli già sul mercato, ovviamente non cambierà nulla. Al loro attuale ritmo di sostituzione, entro il 2024 / 2025 il problema si sarà risolto da solo.
Secondo, i rumors che potete trovare anche voi in rete negli ultimi giorni, ci dicono che Apple potrebbe abbandonare la sua porta lightning, per sostituirla con una porta magnetica ed un caricabatterie magsafe a tre pin. E tutto questo è almeno probabile, alla luce dei brevetti rilasciati recentemente proprio dall’Ufficio Brevetti americano ad Apple.
Vuoi vedere che Apple sta sviluppando una nuova soluzione ed una decisione dell’Unione Europea su uno standard diverso, romperebbe le uova nel paniere alla casa di Cupertino?
FONTE DI INNOVAZIONE
D’altra parte non vogliamo essere troppo semplicisti. Il caricabatterie è comunque fonte di innovazione e vantaggio competitivo. Se andate a vedere su una semplice pagina di Wikipedia, quanti tipi di charger esistono, rimarrete colpiti. Quelli basici, quelli che controllano la temperatura e si regolano di conseguenza, quelli che dialogano con lo smartphone e ricaricano in funzione delle specifiche caratteristiche e condizioni della batteria, quelli wireless, quelli solari e persino quelli che sfruttano il movimento del corpo umano.
Inoltre, mi sembra che tu tali 51.000 tonnellate di caricabatterie e sul loro smaltimento si siano creati impianti, tecnologie, posti di lavoro ed imposte. Non è un tema semplice e non mi sento di schierarmi ne con Apple, ne con la standardizzazione forzata. Questo sarebbe un bellissimo caso per fare un esercizio di futuro professionale, pensare agli scenari possibili e quelli auspicabili tra 10 o 15 anni, ed uscire dalle gabbie del presente.
Se i manager di Apple e gli esperti dell’Unione Europea sono in ascolto, non siate timidi e mettetevi in contatto con me.
REPAIRABILITY INDEX
Ricordo benissimo che molti anni fa, quando cominciò a diffondersi il format Ted, quello degli speech ispirazionali, uno dei primi che guardai fu quello di Yves Morieux, intitolato “As work gets more complex, 6 rules to simplify”. Eravamo nel 2013, ed oggi, con quasi 4 milioni di visualizzazioni su Youtube, resta ancora uno di quelli da non perdere. Il suo richiamo alla semplificazione ed il fantastico meme su Mr. Repairability, il manager chiamato a definire il processo di riparabilità di un oggetto, allora sembrava sarcastico, ma quasi 10 anni dopo è molto più attuale di quello che sembri.
Con una decisione da first mover mondiale, il mese scorso la Francia ha iniziato a richiedere ai produttori di alcuni dispositivi elettronici, tra cui smartphone e computer portatili, di comunicare ai consumatori quanto siano riparabili i loro prodotti.
I produttori che vendono questi dispositivi in Francia devono dare ai loro prodotti un punteggio, o “indice di riparabilità”, basato su una serie di criteri tra cui quanto sia facile smontare il prodotto e la disponibilità di pezzi di ricambio e documentazione tecnica.
Anche se la Francia non imporrà l’uso dell’indice con le relative sanzioni, fino al prossimo anno, alcune aziende hanno già iniziato a rilasciare i punteggi per i loro prodotti. L’indice di riparabilità rappresenta parte dello sforzo della Francia per combattere l’obsolescenza pianificata, la creazione intenzionale di prodotti con una durata di vita finita che devono essere sostituiti frequentemente, e la transizione verso un’economia più circolare dove i rifiuti sono ridotti al minimo.
CARTINA DI TORNASOLE
Viene ovviamente da chiedersi perché tale stimolo arrivi da un singolo Paese e non direttamente dall’Unione Europea, ma, a mio avviso va bene così. I sostenitori del “diritto a riparare” dicono che l’indice servirà come cartina di tornasole per altre nazioni che stanno pensando a regolamenti simili, aiuterà i consumatori a fare scelte migliori, e si spera di incentivare le aziende a produrre più dispositivi riparabili. Insomma, un punto di partenza, quasi di test per sondare le reazioni dei tanti stakeholder coinvolti su questo dibattito così delicato e del quale, anche The Future ha parlato spesso.
L’indice, che inizialmente si applica a smartphone, computer portatili, TV, lavatrici e tosaerba (chissà perché, ma si vede che in Francia sono particolarmente importanti), è rappresentato con un punteggio in scala da 1 a 10, con il numero più alto che indica un dispositivo più riparabile.
I produttori devono classificare i loro prodotti integrando cinque criteri: disponibilità di documenti tecnici per aiutare nella riparazione, facilità di smontaggio, disponibilità di pezzi di ricambio, prezzo dei pezzi di ricambio, e una categoria jolly per problemi di riparazione specifici della specifica classe di prodotti. Tutte le informazioni che sono servite a calcolare l’indice, inoltre, devono essere messe a disposizione dei consumatori al momento dell’acquisto. Insomma, una norma ben codificata, sulla quale non si scherza. Pena non tanto le sanzioni amministrative che devono ancora arrivare, ma la reputazione del produttore di fronte ai suoi Clienti.
Ovviamente il sistema non è perfetto, è nato abbastanza rapidamente, forse anche troppo sostengono i detrattori, e si basa su una serie di compromessi tra le parti interessate che non lo rende apprezzato da tutti, ma è un passo nella giusta direzione.
IN ATTESA DEL 2024
Tanto che la Francia prevede che tale indice, entro il 2024, evolverà in un vero e proprio “indice di durata” che non solo dice ai clienti quanto sia riparabile un prodotto, ma descrive anche la sua robustezza complessiva.
Ed il consumatore sembra apprezzare. A settembre, il governo francese ha pubblicato i risultati di uno studio che ha esaminato come 140.000 acquirenti online hanno risposto a una versione beta dell’indice di riparabilità che includeva tutti i criteri finali tranne il prezzo dei pezzi di ricambio. Si è scoperto che i clienti preferivano l’acquisto di computer portatili con un indice di riparabilità presente, rispetto a quelli che ne erano privi. Ora che il sistema è live, vedremo come i differenti punteggi influenzeranno il mercato.
Mica male, bravi i francesi!
SALUTI
Grazie per aver ascoltato The Future Of, davvero! Avresti potuto ascoltare la radio, avresti potuto far girare un vinile, avresti potuto mettere su una cassetta, avresti potuto usare uno stereotto, ehm, a sapere cosa fosse, e invece hai preferito The Future Of. E’ per questo che ti ringrazio, ed hai ancora centinaia di puntate da scoprire.
Alvin Toffler, nel suo libro del 1970 intitolato Future Shock, scrisse: “Abbiamo bisogno di formare migliaia di giovani nelle prospettive e nelle tecniche del futurismo scientifico, invitandoli a condividere l’emozionante impresa di mappare futuri probabili.” Una necessità ancora attuale ed incompiuta.
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