Lobby fossile, la propaganda di Aims, diritti ambientali

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Lobby fossile La propaganda di Aims Diritti ambientali

Lobby fossile

Lobby fossile

Martedì il Parlamento europeo ha approvato in via definitiva il divieto di vendita di nuove auto a benzina e diesel a emissioni di carbonio dal 2035, con l’obiettivo di eliminarle dalle strade del continente entro la metà del secolo. In Italia ed in altri Paesi si sono subito levate voci di plauso da una parte e di feroce critica dall’altra. Per i favorevoli un tempo di oltre 10 anni è sufficiente alla case automobilistiche per riconvertire le loro produzioni verso mezzi a zero emissioni, per i contrari si rischiano di perdere milioni di posti di lavoro. In un certo senso hanno una parte di ragione e di torto tutti e due.

La trita e ritrita critica che i veicoli elettrici sarebbero capaci di migliorare il clima solo se per alimentare le batterie viene utilizzata energia pulita, la conosciamo. Intanto, un nuovo studio dell’Università della California del Sud, che utilizza dati reali, ha dimostrato che, anche a bassi tassi di penetrazione, la diffusione dei veicoli elettrici si traduce in una migliore qualità dell’aria e in una migliore salute. Uno studio che finalmente è stato condotto su dati reali, presi tra il 2013 ed il 2019, e non semplici proiezioni. Non sarà certo definitivo, ma correla l’aumento della diffusione di veicoli elettrici alla diminuzione di casi di asma ed alla concentrazione di alcune sostanze tossiche.

Usa vs Europa

Allora dovremmo infischiarcene dei posti lavoro e mettere davanti a tutto ambiente e salute? Ovviamente no, ma quello che noto è che il sistema Europa sta disciplinando queste ed altre materie solo con divieti e nuove regolamentazioni restrittive. Negli USA, invece, il Governo investe una grande quantità di risorse per spingere gli operatori privati a fare la cosa giusta. Proprio nei giorni scorsi, un’azienda del Nevada, la Redwood Materials, che ricicla batterie per veicoli elettrici ha ottenuto un prestito di 2 miliardi di dollari dall’amministrazione Biden. No, non avete capito male, 2 miliardi di dollari e solo in Nevada.

Noi vietiamo, gli USA sovvenzionano. Mentre da noi assistiamo a pubblicità più o meno ridicole di operatori di utility varie che si ergono a paladini di consumi, ambiente ed energia pulita. Ma gli annunci pubblicitari non sono l’unica cosa che queste aziende fanno per proteggere i loro interessi commerciali di fronte a un mondo che si riscalda rapidamente. La maggior parte di esse fornisce anche sostegno finanziario a gruppi industriali che spendono centinaia di milioni in attività di lobbying, spesso per ostacolare le politiche volte a rallentare il cambiamento climatico.

La GCC

Negli USA, tre associazioni di categoria la National Association of Manufacturers, l’Edison Electric Institute e l’American Petroleum Institute, si sono unite a un paio di aziende elettriche per formare la Global Climate Coalition, o GCC. La GCC si è sistematicamente opposta a qualsiasi regolamentazione internazionale delle emissioni climalteranti e ha impedito con successo agli Stati Uniti di ratificare il Protocollo di Kyoto, un accordo internazionale del 1997 per la riduzione delle emissioni di gas serra. Questo è stato il primo esempio di collaborazione tra associazioni di categoria per bloccare l’azione del governo in materia di cambiamenti climatici. Un impegno simile continua ancora oggi: nell’ultimo decennio gli investimenti aggregati della lobby del fossile sono stati pari a 2 miliardi di dollari, 27 volte quelli delle organizzazioni che spingono verso norme più verdi. 27 volte.

Quindi attenzione alle motivazioni. Quando ci dicono che eliminare le auto a combustibili fossili è un problema legato all’occupazione… non sarà solo l’effetto dell’ennesima attività di lobbying ben remunerata? E quando l’Europa capirà invece che promuovere i virtuosi è meglio che punire i viziosi?

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Aims

La propaganda di Aims

Aims, ovvero Advanced Impact Media Solutions. No, non si tratta di una delle tante agenzie di media e social marketing che promettono di migliorare le vostre campagne o il posizionamento sui motori di ricerca. Aims è una società che controlla più di 30.000 profili falsi sui social media, che può essere utilizzata per diffondere disinformazione su vasta scala e rapidamente. Un servizio venduto dal “Team Jorge”, un’unità di operatori della disinformazione con sede in Israele.

A quanto emerge da un’investigazione giornalistica del Guardian ha clienti tra le varie agenzie internazionali, grandi aziende e gruppi politici. In circa 20 Paesi, tra cui Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Germania, Svizzera, Grecia, Panama, Senegal, Messico, Marocco, India, Emirati Arabi Uniti, Zimbabwe, Bielorussia ed Ecuador. Più globale di così.

L’analisi della rivista inglese ha rivelato una vasta gamma di attività bot, con i falsi profili di Aims sui social media coinvolti in una disputa in California sull’energia nucleare, in una controversia #MeToo in Canada, in una campagna in Francia che coinvolgeva un funzionario delle Nazioni Unite del Qatar e in un’elezione in Senegal.

Sono dappertutto

Secondo una dimostrazione che Aims ha fornito ad alcuni giornalisti in incognito, ogni avatar ha una storia digitale apparentemente da persona normale, che però viene attivato ad-hoc a seconda delle campagne e degli scopi dei clienti. Aims consente la creazione di account su Twitter, LinkedIn, Facebook, Telegram, Gmail, Instagram e YouTube. Alcuni hanno anche account Amazon con carte di credito, portafogli bitcoin e account Airbnb. Ma sono tutti finti, cioè non corrispondono a persone realmente esistenti, nonostante l’apparenza. O, in alcuni casi, ancora più preoccupanti, si basano su foto e video di vita reale “rubati” a profili di persone reali, ma completamente ignare; giusto per dare un maggiore tocco di realtà allo schema. E per non far mancare nulla all’internazionalità dei profili, alcuni scrivono correttamente in inglese, spagnolo, russo e giapponese.

L’azienda ovviamente non commenta, Twitter evita di rispondere per ora, mentre Meta si è già attivata ed ha cancellato i falsi profili da Facebook identificati dai giornalisti. Apparentemente 30.000 profili non sembrano tanti sul vasto mondo di miliardi di utenti fra tutte le piattaforme. Ma, in realtà, tutte le volte che esprimono delle posizioni fittizie ed iper-critiche su un certo argomento o verso una persona, servono ad aggregare tutti quelli che la pensano come loro, attraverso commenti, retweet, condivisioni, facendo di fatto da volano alla diffusione di notizie false o di veri e propri torrenti di odio.

Quando sui social vedete scritte delle castronerie pazzesche e vi chiedete se è possibile che certe idiozie vengano diffuse, ricordate sempre che forse non avete a che fare con degli stupidi, bensì dei bot scatenati appositamente contro qualcosa o qualcuno.


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Diritti ambientali

Diritti ambientali

Se l’ambiente avesse gli stessi diritti legali di un essere umano, continueremmo a trattarlo con lo stesso apparente disprezzo? Distruggeremmo i suoi habitat? Lo inquineremmo con i nostri rifiuti? Sfrutteremmo le sue risorse, tutto per un guadagno economico a breve termine?

È questa linea di pensiero che sta spingendo le comunità e gli attivisti di tutto il mondo a chiedere che alla natura venga conferita una sorta di “personalità”, per darle gli stessi diritti legali fondamentali delle persone.

La concessione di diritti legali all’ambiente cambierebbe senza dubbio il modo in cui l’uomo interagisce con la natura. Il sistema giuridico dovrebbe tenere conto dei diritti dell’ambiente e garantirne il rispetto, come se fosse esattamente un nostro pari. Mentre oggi, tutto sommato, ci siamo posti al di sopra della natura, considerandola semplicemente una risorsa. Tuttavia, non è chiaro se questo cambiamento comporterebbe un cambiamento significativo nel nostro comportamento nei confronti dell’ambiente.

È essenziale capire che il degrado ambientale non è causato esclusivamente dall’assenza di diritti legali. Si tratta invece di una questione complessa che deriva da una serie di fattori, tra cui gli incentivi economici, le priorità politiche e i valori culturali. Anche se all’ambiente fossero riconosciuti diritti legali, non è detto che lo tratteremmo con il rispetto e la cura che merita. Non è un caso che i principali movimenti a sostegno di questa possibilità sono quelli nati in luoghi del pianeta dove lo sfruttamento delle risorse ha causato danni pesanti e spesso irreparabili all’uomo. Come dire, le comunità più toccate sono iper-sensibili, altrove l’attenzione è un po’ più diluita.

Portata globale

Uno dei motivi è che molti problemi ambientali sono di portata globale, il che rende difficile ritenere gli individui o addirittura le aziende responsabili delle loro azioni. Ad esempio, il cambiamento climatico è causato dalle emissioni cumulate di miliardi di persone nel corso di decenni, il che rende difficile attribuire la responsabilità a una sola persona o entità. Pertanto, un quadro giuridico che cerchi di proteggere l’ambiente dovrebbe essere di portata globale e applicabile in tutte le giurisdizioni. Fatto ovviamente non facile, non esistendo sul pianeta una unica autorità sul tema, ne potendosi, la persona “ambiente” difendere da sola.

Un’altra sfida sarebbe quella di bilanciare la protezione dell’ambiente con lo sviluppo economico. La crescita economica è spesso prioritaria rispetto alla protezione dell’ambiente e le imprese possono continuare a sfruttare l’ambiente per guadagni a breve termine, anche se ciò significa violare i diritti legali dell’ambiente. Quantomeno in assenza di sanzioni condivise da tutti ed applicabili. Pertanto, qualsiasi quadro giuridico che cerchi di proteggere l’ambiente dovrebbe considerare attentamente le implicazioni economiche della protezione ambientale.

In conclusione, la concessione di diritti legali all’ambiente sarebbe un passo avanti nel riconoscimento dell’importanza della protezione della natura. Tuttavia, è improbabile che si traduca in un cambiamento significativo del nostro comportamento nei confronti dell’ambiente, a meno che non sia accompagnato da altri cambiamenti, come un cambiamento dei valori culturali e degli incentivi economici. In definitiva, la protezione dell’ambiente richiederà un approccio globale che consideri tutti i fattori che contribuiscono al degrado ambientale.

Casi reali

Nel frattempo alcuni Paesi, in particolare l’Australia, stanno già dibattendo sul tema in maniera più concreta, anche se locale.

Nel 2019 un rapporto commissionato dall’Alleanza australiana per le leggi sulla Terra ha raccomandato di riconoscere alla Grande Barriera Corallina una personalità giuridica, che le conferirebbe diritti e tutele legali secondo la legge australiana. A livello statale, nel 2019 il governo ha approvato una mozione simbolica che riconosce i diritti dei fiumi e degli altri corsi d’acqua. E nell’Australia occidentale, il popolo Nyikina Mangala e Bunuba ha presentato al governo statale una proposta per riconoscere il fiume Fitzroy come persona ancestrale nel 2016.

Anche i consigli comunali si stanno attivando: Il Consiglio comunale delle Blue Mountains ha approvato una mozione per il riconoscimento dei diritti della natura nel 2020, dichiarando che “Il Consiglio comunale delle Blue Mountains riconosce i diritti intrinseci della natura a esistere, prosperare ed evolversi, e le relazioni interconnesse tra tutti gli esseri viventi e gli ecosistemi“. Il Consiglio comunale di Darebin, che si occupa dei sobborghi esterni di Melbourne, ha fatto una dichiarazione simile nel 2018.

Io non so se riusciremo mai a dare una personalità giuridica all’ambiente su scala globale, ma credo che lo spunto sia meritevole di ulteriori approfondimenti.


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