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Licenziamenti tech
Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad una valanga di licenziamenti in Silicon Valley ed in giro per il mondo da parte dei giganti del Tech. Circa 100.000 nel solo mese di Gennaio. Amazon 18.000, Google 12.000, Meta 11.000, Microsoft 10.000, Salesforce 8.000, senza contare la mannaia di Musk già calata a fine anno sui dipendenti di Twitter. Spotify, Netflix, Paypal e molti altri hanno contribuito proporzionalmente alle loro dimensioni. L’unica per ora, apparentemente fuori da questi giochi sembra Apple.
La logica conseguenza è chiedersi il perché. Sono cambiati i fondamentali del mondo Tech? Secondo la maggior parte degli osservatori, no. Figure con competenze tecniche avanzate continuano ad essere più che necessarie nel lungo termine, ma nel breve i giganti sembrano ristrutturarsi, riorganizzarsi e nel caso di Google “tirare il fiato”.
Il colosso di Mountain View nel 2019, pre-pandemia, contava 119.000 dipendenti, poi lievitati a 187.000 prima di questi licenziamenti. Zuckerberg ha invece candidamente dichiarato che alcuni degli investimenti fatti in passato non hanno funzionato: risultato 15.000 assunzioni ad inizio anno scorso, quasi tutti rimandati a casa all’inizio di questo. I 18.000 di Amazon sono in realtà una frazione dell’oltre 1,5 milioni di dipendenti nel mondo, anche se c’è una bella differenza tra un ingegnere di prodotto ed un magazziniere di un centro di distribuzione.
Pandemia e casistiche
Ecco allora due temi chiave: pandemia e tipologia di lavoratori lasciati a casa. Molte di queste aziende sono cresciute esponenzialmente durante la pandemia; un fenomeno che ha bloccato l’economia per due anni nel mondo, il realtà per loro è stato un volano per veder aumentare il proprio giro di affari. Ora l’aumento dell’inflazione, dei tassi di interesse e la prospettiva di uno scenario economico più incerto e turbolento hanno convinto di sfoltire.
E chi esattamente viene licenziato? Un report di 365 Data Science sostiene che ben il 28% appartiene al mondo HR. In parte, ovviamente perché di fronte a minori necessità di assunzioni future, servono meno persone nelle risorse umane. Ma in parte anche perché diversi processi di automazione del mondo della ricerca e selezione del personale, basati sempre più su algoritmi e software, richiederebbero meno necessità di personale umano dedicato a questi compiti.
Qualcuno vede anche il bicchiere mezzo pieno. L’esercito di competenze uscite dalle Big Tech potrebbero riversarsi nella miriade di startup, che è vero spesso possono pagare di meno, ma sono anche il luogo dove si sta spostando la frontiera dell’innovazione. Come dire, i giganti si sono un po’ rammolliti anche da questo punto di vista.
Inoltre parrebbe che alcuni Paesi europei stiano palesemente puntando a tali risorse, visto che da questa parte dell’oceano c’è comunque una certa carenza. Certo, trasferirsi dalla West Coast alla fredda Berlino potrebbe non essere una passeggiata, ma potrebbe essere il prossimo piccolo trend dopo questo momento ormai definito “post pandemic boom… reset”.
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De-estinzione
De-estinzione
Agli osservatori del mondo startup, in queste settimane, non sarà passato inosservato un round di investimento abbastanza singolare. Colossal Biosciences ha raccolto 150 milioni di dollari portando la sua valutazione ad oltre un billion (e mezzo per la precisione): non c’è dubbio che ogni nuovo unicorno desti un certo interesse.
Se poi il suo obiettivo dichiarato è riportare in vita creature estinte, andando a coniare o quantomeno rendere popolare il termine “de-estinzione”, la cosa si fa quantomeno clickbait. Quali creature? Il dodo è il più recente nominato, ma sarebbe già il terzo animale nella lista di Colossal. A marzo dell’anno scorso la startup ha dichiarato che avrebbe riportato in vita il mammut lanoso e ad agosto ha aggiunto l’impegno a resuscitare la tigre della Tasmania, o tilacino, dichiarata estinta negli anni Trenta.
Del mammut si parla da decenni e tecnicamente sembra meno complesso di altre specie. Il suo DNA corrisponde al 99,6% a quello dell’elefante asiatico, il che fa pensare che Colossal sia sulla buona strada per raggiungere il suo obiettivo. Se l’editing genico condurrà ad un embrione impiantabile in un elefante oggi esistente, l’idea di riportare in vita il colosso dei ghiacci, non sembra così pellegrina, anche se è ancora tutta da provare.
Perché investire?
Se vi chiedete perché mai un investitore dovrebbe buttare centinaia di milioni in un progetto come questo, non fatevi ingannare dalle chiacchiere sulla preservazione delle specie, la rivitalizzazione di ambienti, lo studio, la scienza ed altre sciocchezze simili. Colossal è un grande laboratorio di nuove tecnologie portate all’estremo. Genetica, intelligenza artificiale e molto altro. I frutti, anche indiretti, di tale mix sono probabilmente più interessanti del dodo in sé e sicuramente più graditi degli appetiti di un mammut, che si cibava di circa 200 kg di erba e vegetali al giorno. Fatto per il quale un ecosistema che lo accogliesse sarebbe forse più a rischio di prima, a meno che non si tratti di un Jurassic Park.
Ma il problema non è nemmeno questo. Semmai lo è il fatto che è sempre più evidente che i progetti di de-estinzione richiedono un quadro giuridico, che non esiste. Attualmente non è chiaro se il coacervo di leggi in vari Paesi sull’editing del genoma, sull’uso degli animali e su altri argomenti equivalga a una vera e propria regolamentazione della de-estinzione. E quindi in questa area grigia Colossal procede. E magari domani brevetterà la tigre della Tasmania, esattamente come i produttori di semi fanno da oltre mezzo secolo con le sementi.
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Celle solari
Celle solari
Devo confessare che tutte le volte che sono alla ricerca di innovazioni di frontiera intriganti, vado sul sito dell’MIT. Ed anche questa settimana il prestigioso istituto non mi ha deluso.
Gli ingegneri del MIT hanno sviluppato celle solari in tessuto ultraleggero che possono trasformare rapidamente e facilmente qualsiasi superficie in una fonte di energia.
Queste celle solari durevoli e flessibili, molto più sottili di un capello umano, sono incollate a un tessuto resistente e leggero, che le rende facili da applicare su una superficie fissa. Possono fornire energia in movimento come tessuto elettrico indossabile o essere trasportati e distribuiti rapidamente in luoghi remoti per l’assistenza in caso di emergenza. Il loro peso è un centesimo di quello dei pannelli solari convenzionali, generano un’energia 18 volte superiore per chilogrammo e sono realizzati con inchiostri semiconduttori, utilizzando processi di stampa che in futuro potranno essere potenziati fino alla produzione su larga scala.
Spazi inutilizzati
Chi segue The Future Of sa che sono particolarmente affascinato dall’utilizzare spazi e superfici oggi parzialmente inutilizzati, per motivi utili. Dai vetri di casa ai tessuti dei nostri abiti. Essendo così sottili e leggere, queste celle solari possono essere laminate su molte superfici diverse. Ad esempio, possono essere integrate nelle vele di un’imbarcazione per fornire energia in mare, applicate su tende e teloni utilizzati nelle operazioni di recupero in caso di calamità o applicate sulle ali dei droni per estenderne l’autonomia. Questa tecnologia solare leggera può essere facilmente integrata nei palazzi, con esigenze di installazione minime. E chi più ne ha più ne metta.
Il problema è che questi dispositivi finora hanno sempre generato quantità di energia modeste. Ottimi se dovete illuminare i led di un garage sotterraneo, lontanissimi dall’essere performanti se volete ricaricare anche solo uno smartphone o un qualsiasi gadget tecnologico nelle vostre tasche. Quando hanno testato il dispositivo, i ricercatori del MIT hanno scoperto che poteva generare 730 watt di potenza per chilogrammo. Secondo l’autore del paper “Una tipica installazione solare sul tetto di una casa americana è di circa 8.000 watt. Per generare la stessa quantità di energia, il nostro fotovoltaico in tessuto aggiungerebbe solo circa 20 chilogrammi al tetto di una casa“. Mica male queste celle solari.
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