A chi servono i segnali deboli di futuro in azienda
La domanda potrebbe sembrare fin banale, servono a coloro che si occupano del processo di pianificazione strategica. Ma non è così. Per due motivi. Primo, perché tale processo può essere svolto in maniera molto diversa in azienda, limitandosi all’operato dei manager o coinvolgendo la struttura fin dalla base. Secondo, perché il destinatario influenza in maniera rilevante come i segnali vengono raccolti, catalogati ed interpretati.
Vediamo le due opzioni, ripercorrendo il ragionamento di Hiltunen. Se la raccolta dei segnali deboli va a solo beneficio dei manager, è uno strumento per legittimare la loro presa di decisioni. Se è uno strumento diffuso ai vari livelli dell’organizzazione, serve a mettere in discussione l’operatività aziendale ed a mettere in discussione tutto quanto l’azienda fa.
Il differente destinatario e scopo cambia tutto. Nel caso di utilizzo “elitario”, la raccolta, l’analisi e l’interpretazione sono limitate a pochi individui. In caso di utilizzo “diffuso”, la disseminazione dell’informazione è ovviamente ampia.
Nel primo caso, tende a confermare la visione di alcuni, nel secondo caso a mettere in discussione quella di tutti. Da una parte l’attività è svolta ad-hoc poco prima di un processo come quello di pianificazione, nell’altro è continua lungo tutta la vita aziendale.
Nel primo caso si rischia un overload di informazione (pochi manager ricevono un grande numero di stimoli), tempi brevi per le analisi, ma più che altro si corre un grandissimo rischio che i segnali colti vadano a sostegno delle tesi già affermate nella testa di pochi. E’ il bias del “filtering” di cui ho già parlato.
Quando invece l’informazione fluisce in continuo da molti verso molti, è più facile che resti aperta, critica e non orientata immediatamente ad un fine o un beneficio di breve periodo (completare il budget o il 5 year plan).
C’è infine un altro elemento importante: il raggio d’azione. Un uso dei segnali deboli limitato ai managers, tende a focalizzarsi sul settore di appartenenza. Trend di settore, analisi dei prezzi, segmentazioni della clientela, ricerche di mercato, report di intelligence sui comportamenti dei concorrenti vengono confusi con i segnali deboli ed usati al loro posto. Non mi fraintendete, queste sono tutte informazioni importanti, spesso più facilmente reperibili in azienda e proprio per questo usate, quando il tempo per le decisioni è scarso. Ma questi, come è facile comprendere, sono tutti input che portano ad essere reattivi, non ad anticipare.
Un approccio diffuso ai segnali deboli tende, invece, ad aprirsi ad input più lontani nel tempo, nello spazio e nella logica. Dove è l’interpretazione il valore aggiunto offerto dall’uomo. Dove fare “connecting the dots” tra fenomeni apparentemente scollegati ed il nostro business, può portare alle anticipazioni più proficue.

Nella mia esperienza, non tutte le aziende amano i processi diffusi, tantomeno quelli decisionali. E quelle che invece prediligono questo approccio, obiettano che comunque può essere molto lento, dispersivo ed è difficile andare al sodo delle cose. L’approccio che ho proposto, cioè quello di avere un Comitato di Foresight, composto sia da professionisti esterni (futuristi ed indipendenti), che interni (ma con rappresentanti delle varie “gerarchie aziendali”, manager e non manager), serve, tra le altre cose, esattamente ad avvicinare i due approcci.
Ma non è l’unico modo. L’altro risiede in un aspetto tecnico, a mio avviso cruciale, il modo in cui cataloghiamo i segnali deboli raccolti. E che sarà l’oggetto del prossimo post.
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